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La tregua a Gaza è in bilico. Hamas ha rimandato a «data da definire» il prossimo scambio di ostaggi, previsto per il 15 febbraio. L’organizzazione terroristica non si fida di Trump e accusa Israele di aver violato le condizioni del cessate il fuoco. Lo Stato Ebraico risponde, ritirando la delegazione ai tavoli negoziali di Doha e ordinando all’esercito ancora nella Striscia di «prepararsi a ogni scenario».
La posizione di Hamas
Hamas ha annunciato il rinvio poco dopo un’intervista di Fox News a Donald Trump, in cui il Tycoon ha ribadito che, nel suo piano per il reinsediamento, ai palestinesi non sarà permesso tornare a Gaza. E che se Egitto e Giordania si rifiutassero di accogliere i profughi permanentemente subirebbero ritorsioni economiche.
Provocazione o piano reale, ormai neanche gli analisti riescono a capire le idee di Trump. Ciò che importa è che, come riporta Reuters, per i negoziatori di Hamas, le garanzie americane sul cessate il fuoco sono venute meno. Rilasciare i restanti 73 ostaggi israeliani vivi senza avere la sicurezza di poter restare nella Striscia significherebbe la morte del movimento islamista.
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Hamas, quindi, cerca di prendere le misure. Abu Obeida, portavoce dell’organizzazione terroristica, ha detto che «le nuove richieste non sono accettabili» e si è dichiarato «aperto a un nuovo governo palestinese, ma non alla deportazione». Per poi accusare gli israeliani di aver violato il cessate il fuoco, «fermando l’ingresso di aiuti e rallentando il ritorno della popolazione a nord».
La posizione israeliana
Anche alla Knesset, il Parlamento di Gerusalemme, gli animi non sono sereni. Il Premier Benjamin Netanyahu non ha nascosto il suo fastidio per gli show con cui sono state annunciate le liberazioni degli ostaggi. Ultimi in ordine: Eli Sharabi, Or Levy e Ohad Ben Ami. Liberati dopo 491 giorni di prigionia, con i volti scavati, i corpi emaciati e a malapena in grado di reggersi in piedi. Esposti come trofei.
Ora, l’annuncio del ritardo complica ulteriormente la situazione. Si infiamma la piazza interna, soprattutto a Tel Aviv. Le famiglie degli ostaggi chiedono a Bibi, come soprannominato da amici e rivali, di andare avanti con le trattative. Perché anche con il superamento del blocco, resterebbero ancora 59 israeliani vivi nella Striscia. Il 15 febbraio sarebbero dovuti essere liberati altri tre ostaggi in cambio di 190 detenuti palestinesi.
Proteste supportate da Yair Lapid, ex-premier e uno dei leader dell’opposizione, che ha richiesto una commissione di inchiesta sulle responsabilità dietro i massacri del 7 ottobre 2023. Ancora una volta posticipata da Netanyahu che non ha ancora assunto una posizione precisa sulla responsabilità.