Non solo Inzaghi, il calcio arabo e le sue sirene milionarie

Simone Inzaghi ha firmato un biennale da 25 milioni netti a stagione Arabia Saudita

Tutti hanno un prezzo. Quello di Simone Inzaghi è 25 milioni netti all’anno per due stagioni. L’ex tecnico nerazzurro ha accettato la faraonica offerta dell’Al Hilal, la più altra di sempre per un tecnico, e nel fine settimana dovrebbe raggiungere la squadra a Miami, in vista dell’esordio ai Mondiali per Club, in programma il 18 giugno contro il Real Madrid. Inzaghi è così diventato l’ultimo, in ordine di tempo, a cedere al richiamo del deserto, unendosi alla schiera di grandi nomi che hanno già scelto di vivere l’esperienza araba. Ma la Saudi Pro League è una sirena che seduce e tradisce. Lo stile di vita, i costumi diversi, la mancanza di un campionato davvero competitivo: alla lunga tutto questo rischia di trasformarsi in una gabbia. Dorata, certo, ma pur sempre una gabbia.

Tutti gli allenatori

Non è soltanto Inzaghi a essersi lasciato sedurre dal fascino, anzi dal miraggio, dell’Arabia Saudita. Prima di lui, allenatori come Roberto Mancini e Steven Gerrard hanno già ceduto al richiamo dell’oro saudita. L’ex tecnico degli azzurri aveva firmato da un contratto con la nazionale dell’Arabia Saudita del valore di circa 90 milioni di euro in quattro anni: una base annuale di 20 milioni, con la possibilità di arrivare a 25 milioni all’anno grazie ad alcuni eventuali bonus. Era stato chiamato per centrale l’obiettivo qualificazione per i Mondiali 2026 e per far crescere il movimento in vista dei Mondiali 2034, ospitati dal Paese. L’esperienza si è chiusa prematuramente, con una risoluzione consensuale del contratto, dopo poco più di un anno e un bilancio sportivo deludente. 

Lo stesso destino è toccato anche a Steven Gerrard, ex bandiera del Liverpool, che aveva accettato la panchina dell’Al-Ettifaq nel luglio 2023, firmando un contratto iniziale di due anni, a 21 milioni di euro a stagione, poi esteso fino al 2027. Anche in questo caso, un’avventura partita con il piede giusto si è ben presto trasformata in una disfatta sportiva. La squadra che, al momento del divorzio era a rischio retrocessione.

Da ultimo anche anche Stefano Pioli si è unito alla carovana dorata. L’ex tecnico rossonero ha accettato la panchina dell’Al Nassr lo scorso settembre e si è ritrovato catapultato in un mondo parallelo, dove le temperature toccano i 45 gradi e la vita scorre dentro i compound, tra lusso e isolamento. «I soldi hanno influito molto nella scelta», ha ammesso senza giri di parole. Ma la magia è durata poco: il campionato saudita non offre il pathos delle sfide europee, gli stadi sono semivuoti e la competitività è un concetto ancora tutto da costruire. Pioli ha chiuso la stagione senza trofei e con la voglia di ripartire altrove, ma vincolato da un contesto che ha tradito le aspettative iniziali.

Mal d’Arabia

Non sono solo gli allenatori a essersi resi conto della differenza abissale con il calcio europeo. Tanti giocatori che hanno accettato le offerte saudite si sono ritrovati in un contesto che promette oro ma spesso delude sul piano umano e sportivo. Jordan Henderson, ad esempio, ha mollato l’Al-Ettifaq dopo sei mesi, ammettendo pubblicamente di aver sbagliato. Aymeric Laporte ha criticato la mancanza di professionalità e di intensità nel campionato. Sergej Milinkovic-Savic si vocifera che avrebbe fatto sapere di non vede l’ora di tornare in Europa.

Anche Karim Benzema ha avuto problemi con la dirigenza dell’Al-Ittihad: la delusione, sul campo e fuori, è palpabile. La cultura e lo stile di vita diversi, la scarsa competitività e gli stadi vuoti hanno smorzato l’entusiasmo di molti. Inoltre, alcuni giocatori hanno lamentato il mancato rispetto di obblighi contrattuali da parte dei club. Cristiano Ronaldo, il nome più altisonante tra i giocatori trasferiti in Arabia, si è trovato a fare i conti con i limiti della vita saudita: leggi rigide, libertà personale compressa, impossibilità di vivere come in Europa. Più di una volta CR7 è finito al centro di polemiche per comportamenti considerati inaccettabili nella cultura locale. Dopo due anni e zero trofei, anche lui ha lasciato il Paese.

La trappola fiscale

Oltre alle sfide culturali e sportive, c’è un altro aspetto che rende l’esperienza in Arabia Saudita particolarmente vincolante: la questione fiscale. Nel paese arabo, gli stipendi per i lavoratori stranieri, inclusi calciatori e allenatori, sono praticamente esentasse, grazie a un’imposizione fiscale ridotta al 2%, che viene solitamente coperta dal datore di lavoro. Tuttavia, per beneficiare di questo regime, è necessario soddisfare due condizioni: risiedere nel paese per almeno 183 giorni all’anno e non avere in Italia il centro prevalente degli interessi economici e affettivi .

Se un calciatore o un allenatore decide di rientrare prima del termine minimo richiesto, rischia grosso: il fisco del proprio Paese d’origine può chiedere la tassazione retroattiva su quegli stipendi “esentasse”, con conseguenze economiche pesantissime.

Stefano Pioli, ad esempio, nonostante la delusione sportiva e la voglia di tornare in Europa, dovrà restare in Arabia fino a inizio luglio per evitare di dover restituire una fetta sostanziosa del suo stipendio dorato. Un rientro anticipato in Italia comporterebbe la perdita dei benefici fiscali sauditi e l’obbligo di pagare le tasse in Italia su tutto lo stipendio percepito, con un’imposizione che potrebbe arrivare fino al 43%. Insomma, Inzaghi, uomo avvisato mezzo salvato: perché anche il deserto, prima o poi, presenta il conto.

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