Il passaggio dalla lira all’euro tra Paese reale e politica nazionale. L’aumento dei prezzi, le chiusure di aziende e le fughe all’estero, raccontati attraverso un focus sul settore calzaturiero della provincia di Fermo. Di questo, ma non solo, parleremo con Paolo Orlandi, ex Product Manager nell’azienda calzaturiera di famiglia: la Mandolesi srl.
Lei viene da Monte Urano, in provincia di Fermo. Può fare ai nostri lettori una panoramica, dal punto di vista economico, di questo territorio?
È un distretto industriale che si è sviluppato tra gli anni 60 e 70 nel settore calzaturiero. I ragazzi, più che studiare, pensavano ad aprire una fabbrica. Infatti, quella delle scarpe è una lavorazione che si presta molto ad alimentare una miriade di microimprese: ogni prodotto ha circa 30-40 elementi, che spesso vengono esternalizzati.
Ci parli dell’azienda della sua famiglia.
La Mandolesi srl era un’azienda con circa 35 operai. Fu fondata da mia mamma, Maria Gilda, tra gli anni 1965-67 ed abbiamo chiuso nel 2014. Producevamo principalmente calzature da donna simili alle odierne sneakers. Eravamo tra i pochi che vendevano soprattutto all’estero, attraverso grandi catene di negozi: Zuegg, Deichmann, Aldo.
Il 70% delle esportazioni avveniva in Germania, Svizzera, Austria, Olanda; il restante in Inghilterra, Francia e Canada. Vendevamo 100-200.000 paia di scarpe all’anno, con un fatturato di circa 6 miliardi di lire. Molto particolare fu il periodo dopo la caduta del muro di Berlino: gli ordini raddoppiarono, perché la Germania Est doveva essere inondata di scarpe. A volte non abbiamo fatto neanche le ferie.
Quando è entrato in azienda? Qual era il suo ruolo?
Io sono entrato nel 1994, dopo essermi laureato in Economia aziendale. Gestivo la rete vendita e decidevo le linee da produrre, girando l’Europa due volte l’anno per capire dove si sarebbe diretto il mercato.
A quanto vendevate le vostre scarpe?
In media a 20-30 mila lire. Poi andavano in vetrina a 50-60 marchi.
E le cose andavano bene?
Le cose andavano molto bene. Per diversi anni siamo anche comparsi nella classifica delle principali imprese marchigiane, redatta annualmente dalla Fondazione Aristide Merloni.
Quando sono iniziate a cambiare le cose?
Le cose sono cambiate al momento dell’introduzione dell’euro. L’Italia ha cambiato la lira ad un tasso troppo alto ed ha perso la possibilità di svalutarla; la Germania ha adottato un cambio debole. Costava meno mangiare una pizza là rispetto a qua. All’epoca ero presidente dei giovani industriali di Fermo e conoscevo molti imprenditori che sostenevano che il cambio era un suicidio. Invece, i politici ci avevano detto che avremmo lavorato un giorno in meno. Fu così. Purtroppo però non perché guadagnavamo tanto, ma perché non avevamo più niente da fare.
Come sono cambiate le cose?
Tutti i prezzi sono aumentati. Ci siamo ritrovati a produrre le stesse calzature al costo di 20€, le quali andavano nei negozi a 50-60€, che erano di più dei 60 marchi di prima! Per essere competitivi avremmo dovuto spendere al massimo 15€, ma in Italia quello era il costo della sola manodopera.
In generale, cos’è successo al tessuto economico del fermano?
Qualcuno ha cavalcato l’onda del terzismo. Altri hanno trasferito la produzione all’estero: all’inizio soprattutto in Romania, poi in Cina o in Albania. Comunque c’è stata una grande morìa di aziende. Quelle che rimanevano in Italia non riuscivano ad essere competitive e per qualcuno non è stato sufficiente nemmeno andare all’estero.
Quali tentativi avete fatto per salvare l’azienda?
Abbiamo provato a fare i terzisti e a produrre una scarpa più giovane, stile sportswear. Però non trovavamo mai un mercato sicuro e l’idea di spostare tutta la produzione all’estero non ci è mai piaciuta. Poi si sono aggiunte anche condizioni personali particolari, quindi abbiamo deciso di chiudere.