I vent’anni dell’euro: più luci che ombre per la moneta unica

Sabato 1 gennaio 2022 l’euro compie vent’anni. All’inizio del 2002 il Presidente della Repubblica era Carlo Azeglio Ciampi e Berlusconi governava da sette mesi. Ronaldo e Vieri dominavano la sfera calcistica nell’Inter e la saga cinematografica di Harry Potter, con Harry Potter e la pietra filosofale, era stata da poco lanciata. I Matia Bazar avrebbero vinto, pochi mesi dopo, il festival di Sanremo con Messaggio d’amore e molto altro. La moneta unica è stato il passo decisivo verso una maggiore integrazione europea. Una comune politica estera e la cooperazione negli affari interni sono stati gli altri pilastri stabiliti dai dodici Paesi dell’allora Comunità europea (Italia, Spagna, Francia, Portogallo, Paesi Bassi, Lussemburgo, Belgio, Germania, Danimarca, Grecia, Regno Unito, Irlanda) a Maastricht, nei Paesi Bassi, il 7 febbraio 1992.

Nel corso del Consiglio Europeo di Madrid nel ‘95 venne scelto il nome della moneta dalla radice del nome del continente. Nel ’96 a Valencia l’incontro che fa da spartiacque all’entrata dell’Italia nell’euro. Il Presidente del Consiglio Romano Prodi vola in Spagna per incontrare il Primo Ministro José Maria Aznar. Il leader de L’Ulivo prova a convincere il presidente spagnolo ad ammorbidire i parametri di Maastricht e fare fronte comune. Dopo il confronto il titolare del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi vara una finanziaria da 62 miliardi di lire per risanare il debito. Fu la principale via d’accesso alla moneta unica.

Romano Prodi, Presidente del Consiglio, e Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica

Nel ’97 il presidente della Commissione europea Jacques Santer presenta le monete al mondo. Otto: da 1 centesimo a 2 euro. Con l’intento di abituare i cittadini al cambio, nei comuni di Fiesole e Pontassieve (in provincia di Firenze) dall’ottobre ‘97 al marzo ’98 fu introdotta la possibilità di fare acquisti utilizzando la nuova valuta. Nel ’98 furono stabiliti i tassi di cambio con le monete nazionali. Un euro vale 1.936,27 lire. E il 25 marzo l’Italia entrò nel gruppo degli undici Paesi che il 2 maggio sancirono la nascita ufficiale dell’euro.

Chi non è entrato nell’euro?

L’euro fu introdotto per la prima volta nel 1999. L’effettiva circolazione ebbe inizio il 1º gennaio 2002. Fino al 28 febbraio, la moneta affiancò le rispettive monete nazionali. Dal 1° marzo si concretizzò la definitiva sostituzione, portando all’attuale situazione in cui 19 dei 27 Stati UE riconoscono l’euro come propria valuta legale. Di seguito, i paesi che non hanno adottato l’euro:

DANIMARCA-SVEZIA. È nell’Unione dal 1973 ma utilizza la corona danese. Nel 2000 c’è stato il referendum per l’ingresso della moneta unica che ha avuto il 53,1 % di contrari. La Svezia è nell’Unione dal 1995 ma usa ancora la corona svedese. Nel 2003 al referendum sull’euro ci fu il 53% di contrari.

CROAZIA, UNGHERIA E BULGARIA. La Croazia è nell’Unione dal 2013 prevedendo di adottare l’euro nel gennaio 2023, utilizza la kuna croata. L’Ungheria è membro dell’Unione dal 2004, ma utilizza ancora il fiorino ungherese e non prevede, per ora, di introdurre l’euro. La Bulgaria è in UE dal 2007 ma usa ancora il lev bulgaro. Prevede di adottare l’Euro nel gennaio 2024.

ROMANIA. Nell’Unione dal 1º gennaio 2007 ma usa ancora la sua valuta, il leu rumeno. La data programmata per il passaggio all’euro fu per l’anno 2024. Nel 2021, questa data venne ulteriormente spostata al 2027 o 2028.

POLONIA E REPUBBLICA CECA. La Polonia è nell’UE dal 2004 ma continua ad usare lo złoty polacco. La Repubblica Ceca, membro dell’Unione dal 2004, aveva intenzione di adottare l’euro nel 2010. In seguito, la data fu posticipata al 2012 per il forte deficit del paese. Utilizza dunque la corona ceca.

Paesi dell’Unione che hanno adottato l’euro
 «1000 lire sono diventate 1 euro»: ma quanto è vera questa frase?

Che la conversione alla moneta comune facesse aumentare i prezzi era al primo posto tra le paure degli italiani alla vigilia del changeover, tanto che il tasso di cambio venne subito messo in discussione dall’opinione pubblica. E infatti ancora oggi è facile sentire che con il passaggio all’euro i prezzi di molti prodotti sono raddoppiati: ad esempio il prezzo di un caffè sarebbe passato da 1000 lire a 1 euro. Tuttavia, a livello generale i dati ISTAT smentiscono un raddoppio dei prezzi, registrando un’inflazione tra il 2,5 e il 2,7% negli anni tra il 2001 e il 2003, anche se l’effetto percepito dalle famiglie è stato del 6%, secondo i dati forniti da Del Giovane e Sabbatini.

Perché dunque tanta differenza tra inflazione effettiva e percepita? Un’analisi mirata sui singoli mercati mostra che un importante rialzo dei prezzi c’è stato, ma solo sui prodotti acquistati quotidianamente come gli alimentari, i giornali, il tabacco e più in generale tutti quei beni forniti da bar e ristoranti, che hanno colto l’occasione per aggiustare i loro prezzi di listino. Un esempio è la pizza, aumentata del 98%, o il cono gelato, con un rincaro del 300% in 13 anni. Parallelamente, però, i prezzi di alcuni servizi come quello energetico o informatico hanno subìto una diminuzione.

La grande recessione
Nel settembre 2008 fallisce la Lehman Brothers

Negli anni precedenti al 2007 le banche americane concedevano mutui ad alto tasso di interesse ma con un alto rischio di insolvenza, creando una bolla speculativa gonfiata dalla maggiore richiesta in ambito immobiliare. Quando l’insolvenza dei mutui fece crollare i prezzi delle case e le obbligazioni legate all’estinzione dei mutui stessi furono rivendute agli istituti finanziari, diverse banche collassarono e Lehman Brothers fallì.

I titoli spazzatura si erano ormai diffusi nei portafogli di investitori in tutto il mondo, causando il tracollo di molte imprese e Stati. Infatti, nel 2008, la situazione finanziaria globale colpì in particolare quattro Paesi dell’eurozona, i cosiddetti PIGS: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. Questi paesi presentavano un deficit nei conti pubblici, un debito pubblico alto e una scarsa competitività dell’economia a livello internazionale. Fu la più grave crisi affrontata dalla moneta unica e dall’Unione Europea.

Austerity: il caso Grecia e l’esempio italiano
Manifestanti protestano contro la Troika

La BCE come principale politica usò l’Austerity. Il caso più emblematico fu la Grecia. Nel caso della Grecia il rapporto deficit/PIL era del 12% contro il 3% necessario per entrare nell’UE: la capacità del Paese di rimborsare i titoli di stato ai cittadini o agli operatori stranieri era limitata. Per cercare capitali sul mercato la Grecia si indebitò sempre di più, incentivando l’evasione fiscale e ingenti sprechi. La Troika, composta dalla Commissione europea, dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca centrale europea, ha conferito alla Grecia 130 miliardi di euro in cambio dell’adozione di misure restrittive all’interno del Paese per ridurre il peso del debito su PIL al 198% entro il 2012 e al 20% entro il 2020. Questa manovra ha permesso alla Grecia di evitare la bancarotta.

Tra i creditori della Grecia c’era anche l’Italia che subì questo «contagio». In Italia, infatti, l’impennata del debito pubblico venne arginata con la formazione del governo tecnico di emergenza, voluto dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con a capo Mario Monti. Si tentò di recuperare credibilità attraverso misure improntate all’Austerity, un insieme di provvedimenti quali la riduzione delle spese, la spending review, l’aumento di pressione fiscale per portare lo Stato ad un pareggio di bilancio tra gettito fiscale e spesa pubblica.

«Whatever it takes»

L’attuale Presidente del Consiglio, nel celebre discorso tenutosi a Londra per la Global Investment Conference, dichiarò: «the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro». Grazie alle parole di Mario Draghi le tensioni sui mercati finanziari si dissiparono e tornò la fiducia nella moneta unica. La Banca Centrale Europea avrebbe preservato l’euro a qualunque costo, attraverso il quantitative easing, strumento utilizzato dalle banche centrali per stimolare la crescita economica di un paese attraverso l’immissione di nuova moneta liquida con l’acquisto di titoli di Stato.

Next Generation EU

La seconda grande crisi affrontata dall’Unione Europea è stata causata dall’epidemia di SARS-CoV-2, che ha avuto pesanti conseguenze sull’economia, soprattutto a causa delle lunghe chiusure a cui si sono dovuti sottoporre tutti i Paesi del mondo. Questa volta, tuttavia, la risposta delle istituzioni è stata diversa: non più l’austerity ma il Next Generation EU, un programma di aiuti economici ideato nel 2020 dalla Commissione Europea. Esso mette a disposizione 750 miliardi di euro, erogati solamente agli Stati dell’Unione che ne hanno fatto richiesta attraverso la presentazione di piani di ripresa e resilienza (PNRR).

Manifesto del Next Generation EU

Per essere approvati dalla Commissione europea, questi ultimi devono riguardare ambiti specifici di investimento (digitalizzazione, transizione ecologica, spesa sociale: lavoro, istruzione, salute) e devono riportare tempistiche precise (comunque non oltre il 2026), le quali, se non rispettate, comporteranno il non ricevimento degli aiuti europei. I fondi saranno reperiti sul mercato, con la vendita di obbligazioni, attraverso l’emissione di debito comune, garantito da tutti i Paesi dell’Unione. Finora, solo i Paesi Bassi non hanno inviato il loro piano alla Commissione. L’Italia, invece, ne ha varato uno da 248 miliardi, di cui 191,5 del Next Gen (122,60 in prestito a tassi di interesse vantaggiosi rispetto a quelli del mercato, 68,9 come sovvenzioni).

Il programma è un grande passo verso l’integrazione europea. Contribuisce a creare un clima di solidarietà e coesione tra i paesi, sebbene in merito di integrazione si tratti solo di un inizio che deve essere necessariamente seguito dal completamento dell’unione bancaria e di quella dei capital markets, essenziali per conquistare la parità di condizioni su tutto il territorio europeo. Next Generation EU potrebbe aumentare il PIL reale dell’Eurozona dell’1,5 per cento nel medio termine, con nazioni come l’Italia che raggiungerebbero un +3 per cento rispetto alla crescita che si avrebbe senza Pnrr entro il 2026.

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