«Riferimento per la professionalità sono l’autonomia, la completezza dell’informazione, l’esercizio del diritto-dovere di critica». Così Walter Tobagi concepiva il giornalismo. Un mestiere fatto di passione e di fatica, quel mestiere che si fa “consumando le scarpe”, perché il giornalista non è un semplice tramite tra notizia e lettori. Un visione che, nel tempo della digitalizzazione e dello smart-working – oggi più che mai visto che l’emergenza sanitaria che ci troviamo ad affrontare ci costringe a rimanere in casa – potrebbe sembrare superata e che invece è sempre più attuale. Il giornalismo è approfondimento. È ricerca, studio, precisione e completezza. I tempi del web costringono gli addetti ai lavori a una corsa contro il tempo per arrivare prima dei competitor, spesso trascurando l’accuratezza delle informazioni. Eppure, che senso ha arrivare per primi se non si arriva impeccabili?
«Le nuove tecnologie non sono il diavolo» scriveva ancora Tobagi, ma non devono sostituire «la funzione di giudizio-controllo del giornalista e dell’intera redazione sulle informazioni in arrivo». Funzione di controllo che oggi è più importante che mai. Da quando, il 15 gennaio 2009, un utente pubblicò su Twitter la foto dell’atterraggio di un aereo sul fiume Hudson a New York, anticipando gli organi di stampa, fu chiaro che il giornalismo era cambiato. Chiunque con uno smartphone e una connessione a internet avrebbe potuto documentare un fatto e postare immagini sui social, rendendole visibili a migliaia di persone. Eppure questo non è fare informazione. Né tantomeno è giornalismo.
La tecnologia aiuta a diffondere le notizie, a renderle usufruibili alla maggioranza della popolazione, ma non sostituisce il giornalista. In primis è necessario il controllo. Esistono strumenti, da Google Image a InVid, che permettono di verificare quando un’immagine è stata scattata e dove, o consentono di vedere se un video – magari diventato virale sul web –, è originale oppure è stato modificato. La fretta è sempre cattiva consigliera, per questo motivo il giornalista deve prendersi il tempo di verificare le informazioni e risalire alle fonti prima di passare alla pubblicazione. Cambia il modo in cui queste operazioni vengono svolte, ma non muta la sostanza.
Altro aspetto che non deve cambiare nel tempo, anche se probabilmente negli ultimi anni sembra essersi un po’ perso, è l’approfondimento. Soprattutto per i giornali di carta. Si fa fatica a parlare, nel 2020, di giornalismo in senso ampio. Le regole sono cambiate: il web impone velocità, senza però trascurare la precisione. Il lettore è sommerso dalle notizie costantemente: notifiche delle app, messaggi su Whatsapp, condivisioni social. Perché mai dovrebbe comprare il giornale cartaceo? La risposta dovrebbe essere: perché è lì che trova qualcosa in più.
Se l’epidemia da Covid-19 ci ha insegnato una cosa, è che produrre un giornale quotidiano di approfondimento è possibile. Riempire le pagine con i numeri dei contagi, le vittime o i guariti è inutile. Il lettore li trova sul web. Basta un click. Se invece le stesse pagine ospitano commenti di esperti, spiegazioni su come potrebbe essere la nostra vita dopo il virus, schemi che fanno capire in maniera chiara cosa prevede il nuovo decreto di turno, allora si sta dando al lettore un servizio utile. Si sta facendo informazione. E la si sta facendo bene. Non è altro che la dimostrazione che quel giornalismo forte, critico, libero e pluralistico inseguito e praticato da Walter Tobagi, anche se con mezzi diversi, non deve essere un’utopia al giorno d’oggi.