Populismo di ritorno:
la lezione di Lasch/2

Il populismo è sulla bocca di tutti, ma definirlo è difficile. Soprattutto, è arduo capire chi sia il vero populista. Di recente il suo utilizzo è esploso per collocare i populisti a destra nel vecchio asse destra-sinistra, classificazione tanto efficace in passato come poco indicativa nel presente. Un uso più sbagliato di questa parola è quasi impossibile. Prima di tutto perché guardando agli ultimi dieci anni di politica italiana è difficile trovare un partito più puramente populista del Movimento Cinque Stelle. Ma a dispetto di come è stato bollato nelle sue varie fasi, questo ha voluto dire ben poco riguardo alla sua collocazione sull’asse destra-sinistra.

Quando si sono uniti alla Lega, chiunque avrà sentito un qualche conoscente di sinistra ripetere questo adagio: “Se non è né di destra né di sinistra, allora è di destra”. Nulla di più sbagliato: non erano di destra. Anzi, in spregio a questa visione, i 5 Stelle hanno finito per essere trasformisti, una vena che nel ceto politico italiano è ben più antica di quella populista. E forse anche più dura a morire.

“La rivolta delle élite” è stato pubblicato per la prima volta nel 1995, un anno dopo la morte del suo autore

Ma non stupisce che il populismo sia andato dilagando in una società sempre più frammentata come la nostra. Un testo fondamentale in questo senso, e una discreta apologia del populismo, è “La rivolta delle élite” dell’americano Christopher Lasch, che negli anni ’90 preannuncia il dilagare del populismo partendo dal distaccarsi delle élite intellettuali e di potere dalla gente comune. In un passaggio molto citato del suo libro scrive:

“I membri delle nuove élite si sentono a casa propria soltanto quando si muovono, quando sono en route verso una conferenza ad alto livello, l’inaugurazione di una nuova attività esclusiva, un festival cinematografico internazionale o una località turistica non ancora scoperta.”

Più o meno la trasposizione educata della propaganda salviniana contro i tecnocrati di Bruxelles o i “professoroni”. Lasch si riferisce al fatto che i “cittadini del mondo” sono turisti a casa propria dove hanno pochi scambi con le persone comuni, e questo si sposa male con la democrazia che ha bisogno di una comunità residente per funzionare. Era il 1994, Lasch sarebbe morto a breve. 24 anni dopo, agli albori della sua prima esperienza di governo, quella sostenuta dalla Lega e dai 5 Stelle, l’avvocato e professore Giuseppe Conte ha rivendicato di essere populista, se questo “voleva dire ridurre lo iato tra popolo ed élite e restituire al popolo la sovranità, la pienezza della sovranità”. Sembra proprio che lo abbia letto.  D’altronde non sarebbe la prima buona lettura sociologica attribuibile al premier, che in quel frangente nominava anche Ulrich Bech e di recente, nei discorsi alla nazione in lockdown, ha citato Norbert Elias.

Ma la biografia di Conte assomiglia terribilmente a quella dell’uomo delle “nuove élite” che spaventava Lasch: vengo da Firenze, e so quanto poco Conte frequentasse la facoltà di giurisprudenza dove insegnava per dedicarsi al suo lavoro di avvocato, ottimamente remunerato come dimostrano le sue dichiarazioni dei redditi rese pubbliche. Se lo ha letto, lo ha anche scordato, e ha dimostrato di non tenere molto in conto le cause sovraniste che il suo primo governo sposava. Quindi il populismo non è neanche del tutto affine al sovranismo, a cui pure Lasch in parte lo associa.

In ambito accademico infatti si parla del populismo come di un’ideologia debole, che sposa il colore politico a cui si lega senza mai abbracciarlo completamente. Chi ci ha provato, è caduto in quello che tra gli studiosi è noto come “il complesso di Cenerentola”: nessun fenomeno politico reale calzerà perfettamente la “scarpa” di una rappresentazione teorica del populismo. Quindi, parlare di populismo è poco utile per inquadrare un partito. Se proprio dobbiamo, meglio usarlo per definire una tecnica politica di chi si rappresenta come alfiere del popolo contro la tirannia delle élite. Anche perché la sua difficoltà nel definirlo non può che voler dire che le pulsioni sociali che si nascondono dietro partiti definiti (o, più spesso, additati) come populisti sono anche nuove e quindi, si spera, meritevoli di rappresentanza politica.

Lucio Valentini

29 anni, giornalista praticante presso il master Iulm. Laurea triennale in Economia, magistrale in Scienze politiche. Stage al Sussidiario.net, con cui saltuariamente collaboro. Mi occupo di economia, politica, musica in particolare di elettronica e rap.

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