Da Palpatine a Magneto: il populismo sci-fi che diventa distopia

«È così che muore la libertà, sotto scroscianti applausi».

Padmé Amidala, giovane senatrice del pianeta Naboo, fatica a trattenere le lacrime. Intorno a lei, i rappresentanti del Senato Galattico acclamano a gran voce il cancelliere supremo Sheev Palpatine, appena autoproclamatosi imperatore. Il disegno di Darth Sidious è compiuto: dopo oltre un millennio, la Repubblica viene sciolta e riorganizzata in un regime totalitario, in nome di una società «più forte e sicura».

Star Wars Episodio III: La Vendetta dei Sith (2005)

La Vendetta dei Sith (2005), sesta pellicola a uscire nelle sale e terza nella cronologia della saga di Star Wars, chiude momentaneamente il cerchio che George Lucas aveva iniziato a tracciare quasi trent’anni prima. Tra duelli mozzafiato con le spade laser e spettacolari battaglie spaziali, quel momento di apparente calma è destinato a rimanere tra i più iconici della serie. La definitiva ascesa al potere del signore oscuro, dopo anni passati a tramare sotto le spoglie di mite difensore della democrazia, ci colpisce più forte di un colpo di blaster. Ci ricorda che, anche in un universo immaginario in cui la Forza regna sovrana, l’arma più potente rimane il consenso delle masse.

Il piano di Palpatine è esemplificativo: per rovesciare i Jedi, suoi nemici giurati, non sceglie la strada della guerra aperta, bensì quella dell’intrigo politico. Celandosi dietro a una doppia identità, manipola tanto lo schieramento dei separatisti quanto quello dei democratici, mostrandosi come l’uomo ideale per scuotere la Repubblica dal suo deleterio immobilismo. E così facendo, trionfa laddove i suoi predecessori avevano fallito per millenni.

Darth Sidious ci spaventa per quanto è verosimile ed efficace nella sua comunicazione. È un maestro della retorica volta alla semplificazione e alla polarizzazione, capace di ridurre ogni situazione a un’essenziale dicotomia: «noi contro loro». Da una parte lui e la sua platea, dall’altra il nemico di turno: ora il cancelliere Valorum, ora la Federazione dei Mercanti, ora i Jedi e le loro bugie. Per essere la perfetta sintesi di un moderno leader populista gli manca soltanto un elemento: un account Twitter.

I due volti di Sheev Palpatine, interpretato da Ian McDiarmid: da un lato affabile politico, dall’altro spietato tiranno.

Ironia a parte, quello dell’impero di Star Wars è solo uno dei tanti esempi nel suo genere. Il filone del cinema fantasy e fantascientifico è ricco di distopie totalitaristiche, che quasi sempre si realizzano sotto la guida di una figura abile e carismatica. Che siano ambientate sulla Terra che conosciamo o «in una galassia lontana lontana», queste realtà ci lasciano con un certo senso di inquietudine, perché spesso le percepiamo come un qualcosa che oggi non è, ma che un domani potrebbe realizzarsi.

V per Vendetta (2006)

Di pochi mesi successivo all’uscita di Episodio III, ma ambientato in uno scenario molto più verosimile, è V per Vendetta (2006). Tratto dall’omonimo romanzo a fumetti di Alan Moore e David Lloyd e risceneggiato per il grande schermo dai fratelli Wachowski, il film racconta un Regno Unito distopico e militarizzato, in cui la società è soggetta a un controllo di evidente matrice orwelliana. Curiosamente, i panni dell’eroina che lotta per la democrazia spettano ancora una volta all’attrice Natalie Portman, che deve nuovamente misurarsi con un politico dai poteri assoluti: l’alto cancelliere Adam Sutler, trasposizione cinematografica del personaggio Adam James Susan nel graphic novel.

Sutler, proprio come Palpatine, sale al potere manipolando l’opinione pubblica e raccogliendo consensi tramite astute macchinazioni. In un mondo sconvolto da violente proteste civili e da una pandemia causata da un misterioso virus, il neofondato partito nazionalista del Fuoco Norreno trionfa alle elezioni con l’87% dei voti, facendo leva sul terrore della popolazione. Su questo sfondo così grottescamente attuale nasce un regime dittatoriale, che perseguita oppositori e minoranze, governando grazie all’influenza dei mass media, a intrusivi sistemi di videosorveglianza e alle repressioni attuate dalla polizia segreta dei Fingermen.

 

Da giovane politico rampante, uomo di fede e conservatore, il cancelliere si trasforma in un leader cinico e dal pugno di ferro, capace di addomesticare la folla con le sue apparizioni televisive e i suoi focosi comizi in cui predica sicurezza e stabilità. La società, turbata dagli attacchi bioterroristici architettati da lui stesso e dai suoi complici, è pronta a rinunciare a parte delle proprie libertà in cambio di un’illusione di protezione. Ma soprattutto, i suoi toni austeri e il motto «England prevails», portati in scena ormai 15 anni fa dalla brillante performance di John Hurt, ricordano in modo fin troppo familiare i discorsi pubblici di un noto ex presidente d’oltreoceano e il suo «America First».

Il film ha riscontrato un impatto straordinario sulla cultura popolare moderna. La maschera di Guy Fawkes, cospiratore britannico realmente esistito e celebre volto della congiura delle polveri del 1605, si è affermata come un simbolo di protesta in tutto il mondo grazie al fumetto e al film di James McTeigue. Adottata inizialmente dall’organizzazione di hackers Anonymous, l’iconica maschera ha fatto la sua comparsa in numerosissime manifestazioni di protesta contro l’autoritarismo e il capitalismo, da Occupy Wall Street al movimento degli Indignados: oggi è universalmente riconosciuta come un’icona anarchica e libertaria, indossata da chi si oppone al potere costituito.

La celebre maschera di Guy Fawkes, indossata dal protagonista di V per Vendetta e divenuta oggi un simbolo di ribellione.
Hunger Games (2012)

Un clima d’oppressione simile a quello della Nuova Inghilterra, seppur in un’atmosfera dai contorni decisamente più fantasy, si ritrova in Hunger Games (2012), film di Gary Ross ispirato al romanzo di Suzanne Collins. Nell’immaginaria nazione di Panem, istituita in un Nord America post-apocalittico, la popolazione è divisa in 12 distretti che rispondono alla metropoli di Capitol City. Mentre i ceti più abbienti conducono una vita sfarzosa nella capitale, gli abitanti di ciascun distretto si occupano di un distinto settore economico per soddisfare i bisogni di Capitol.

A capo dell’oligarchia che governa Panem siede il presidente Coriolanus Snow, che da buon tiranno condivide un notevole numero di tratti con gli antagonisti citati in precedenza. Anch’egli è infatti un despota spietato e ossessionato dal controllo, che tuttavia esercita in forma differente: non ricorre solo all’uso del terrore e della repressione violenta, ma riconosce l’efficacia della speranza, a sua detta «l’unica cosa più potente della paura». Per questo motivo in ogni edizione degli Hunger Games, il sadico gioco annuale in cui giovani tributi estratti dai vari distretti vengono costretti a uccidersi a vicenda, il vincitore finale viene celebrato come un eroe e ricoperto di onori e ricchezze.

L’attore Donald Sutherland nelle vesti del presidente Coriolanus Snow, antagonista principale della saga di Hunger Games.

Non è un caso che questa macabra tradizione sembri ispirata ai giochi gladiatori in uso nell’antico Impero Romano. La stessa nazione di Panem deve infatti il suo nome alla celebre locuzione «panem et circenses» attribuita al poeta latino Giovenale: chi governava, all’epoca, cercava di assicurarsi il consenso della plebe con distribuzioni di grano e spettacoli pubblici. Per estensione, tale frase viene oggi utilizzata in riferimento a una serie di strategie politiche assimilabili alla demagogia. O, in altre parole, alla costruzione ideologica del consenso che sta alla base del moderno populismo. Snow e i suoi seguaci la attuano in modo minuzioso, così che i cittadini di Capitol, accecati dal lusso che li circonda e distratti da grotteschi reality show, ubbidiscono ciecamente e non si curano dei problemi che affliggono i distretti più poveri. Una tattica non tanto diversa da quella praticata da chi, sceso in politica all’alba degli anni ’90, proponeva intrattenimento leggero sulle proprie reti televisive e farciva di campioni la propria squadra di calcio, elargendo sorrisi, barzellette e promesse elettorali.

Equilibrium (2002)

Da diverse premesse si sviluppa invece la città-stato distopica di Libria, tra le cui mura è ambientato Equilibrium (2002). Il film di Kurt Wimmer, che inizialmente si rivelò un fiasco al botteghino e fu demolito dalla critica per le sue forti somiglianze con altre opere del genere, negli anni si è progressivamente avvicinato allo status di cult. Oltre a vantare una delle più rapide dipartite di un personaggio interpretato da Sean Bean e una delle più sottovalutate prestazioni di Christian Bale, la pellicola presenta una forma di controllo della società basata sulla totale assenza di emozioni.

 

Il principio su cui si fonda la nazione di Libria è quello dell’addizione per sottrazione: privata di ogni impulso emotivo grazie alla costante somministrazione di un apposito farmaco, il prozium, la popolazione vive un’illusione di pace assoluta, in cui rabbia e conflitti non sono che un lontano ricordo. La città è governata dalla misteriosa e carismatica figura del “Padre”, che esercita la sua propaganda attraverso i giganteschi schermi di cui la metropoli è costellata. Arte, letteratura e musica sono completamente bandite, tanto che tutti i materiali reputati pericolosi vengono dati alle fiamme e chi si ribella viene perseguitato dal corpo dei Chierici e giustiziato in quanto «colpevole di sensazioni».

La distopia di Libria è forse una tra le più interessanti da analizzare. In questo scenario l’aspetto di identificazione emotiva del leader con le masse, uno dei capisaldi del populismo, viene totalmente a mancare a causa dell’assenza in toto dell’elemento emotivo. Contrariamente, è l’aspetto proibizionistico a essere promulgato fino al suo estremo: tutto ciò che si contrappone all’ideologia regnante viene percepito come una minaccia da estirpare, un male la cui unica cura è rappresentata dalla volontaria assuefazione a una mentalità da gregge. L’opposizione, ovvero i ribelli che vivono al di fuori delle mura e non seguono i dettami del “Padre”, viene trattata a tutti gli effetti come un gruppo criminale. Ogni opinione discordante è delegittimata di qualsivoglia connotazione di valore e non ha ragion d’esistere in una comunità plasmata a totale somiglianza del suo leader.

X-Men (2003)

Se in Equilibrium la seconda componente dell’equazione «noi contro loro» viene in un certo senso annullata, in molte altre pellicole di questo filone costituisce invece lo snodo centrale del conflitto. Da Matrix (1999) dei Wachowski ad Avatar (2009) di James Cameron, il rapporto con il diverso, macchina o alieno che sia, diventa il fulcro intorno a cui gravita gran parte della vicenda. E tra tutti gli esempi appartenenti a tale sottogenere, una menzione particolare va riservata alla saga di X-Men (2003).

Nel mondo popolato da umani e mutanti concepito dalla penna di Stan Lee e Jack Kirby, i temi della xenofobia, dell’odio razziale e della discriminazione rivestono un ruolo quanto mai centrale. Erik Lehnsherr, leader estremista della Confraternita dei Mutanti, vanta origini ebree e trascorre l’infanzia in un campo di concentramento, in cui assiste alle medesime atrocità che anni dopo verranno perpetrate dagli umani nei confronti dei mutanti. Erik decide di rispondere alla violenza con altra violenza e, abbandonando l’amico Xavier per le sue posizioni più pacifiste, fonda la Fratellanza e inforca il suo elmetto distintivo, abbracciando definitivamente l’identità di Magneto.

Michael Fassbender e Ian McKellen nel ruolo di un giovane e di un anziano Magneto, antagonista principale della saga di X-Men.

Partendo da uno sparuto manipolo di sostenitori, Magneto con il tempo si rivela in grado di accumulare un vero e proprio esercito di seguaci pronti a sacrificarsi per la sua causa, senza bisogno di ricattarli, raggirarli o sottometterli con l’uso dei propri superpoteri. Le sue più grandi armi sono il suo innato carisma e la sua inscalfibile devozione verso la propria specie d’appartenenza: in altre parole, Magneto è un maestro assoluto dell’arte dell’empatia. Erik può vestire indistintamente il mantello di un assassino freddo e calcolatore o gli abiti di un uomo sofisticato e acculturato, con una passione per gli scacchi, i liquori e la musica classica. È questo stesso principio che, nella realtà, può spingere un politico a decorarsi di dolcevita e tessuto a coste quando parla agli emiliani, o a mostrarsi sui social nelle vesti più disparate: all’occorrenza medico, barista, alpino, vigile del fuoco o tifoso, proprio come un mutante.

In conclusione, è bene precisare che il paragone tra alcuni dei protagonisti della nostra scena politica e i supercattivi dei film sci-fi va inteso innanzitutto un esercizio di goliardia e, a prescindere dai risultati delle prossime presidenziali, sarebbe irrazionale temere di ritrovarsi scagliati in una realtà distopica da un giorno all’altro. Al tempo stesso, però, interrogarsi sulle coincidenze più curiose non è affatto un’attività fine a sé stessa. Dopotutto un fondo di verità esiste in ogni racconto e, come recita uno dei più grandi cantastorie del nostro tempo, Stephen King:

«Fiction is the truth inside the lie».

Ivan Casati

Nasco nel marketing e mi riscopro nel giornalismo, sempre con un unico, grande filo conduttore: la mia passione per lo sport. Il mio sogno è raccontarlo, con la penna e con la voce.

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