Era il 2001 quando Ettore Scola diresse il film “Concorrenza sleale”, ambientato a Roma a fine anni 30. Un sarto della capitale (Diego Abatantuono) e un commerciante di vestiti ebreo (Sergio Castellitto) hanno i rispettivi negozi nella stessa via. Sono in continua competizione, escogitano mille trovate per attirare clienti giocando, a volte, anche un po’ sporco. Però, l’avvento delle leggi razziali cambia tutto: il negoziante ebreo è costretto a chiudere il suo esercizio e trasferirsi nel ghetto.
Chissà se tra i due parrucchieri della foto si sono attivate le stesse dinamiche. Di certo, la presenza cinese nel tessuto economico italiano è diventata consistente negli anni. Nel Paese ci sono 279.728 cinesi (0,4% della popolazione). Sono 53.297 (1% del totale circa) le imprese individuali a loro intestate. Si concentrano soprattutto in Toscana, Lombardia (con rispettivamente poco più del 20% del totale) e Veneto (11%), cosa che rispecchia abbastanza bene la distribuzione della comunità nel territorio. I settori economici nel quale lavorano maggiormente queste attività sono quelli del commercio (36%) e del manifatturiero (33,6%). Il segreto del loro successo è riuscire a dare ai clienti più o meno tutto quello che vogliono, in tempi rapidi o rapidissimi, ad un costo inferiore rispetto alla concorrenza.
Il punto è quanto questa gara a ribasso sia rispettosa delle regole. Pagamento delle tasse e orari a parte, i lavoratori dipendenti cinesi percepiscono retribuzioni mensili mediamente inferiori a quelle degli altri impiegati immigrati da Paesi dell’UE in Italia: 654€ contro 1075€. A quale italiano piacerebbe essere nei panni di un lavoratore cinese?
Perché dunque alimentare con gli acquisti questo sistema di concorrenza (forse) sleale?