Smart working, remote working e il mondo del lavoro dopo il Covid

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Sono passati cinque anni da quando i bambini vennero messi davanti ad una telecamera a seguire le lezioni online e i lavoratori furono costretti a lavorare da casa. Con una camicia ben stirata sopra e un pantalone del pigiama sgualcito sotto, il remote working si è fatto strada nelle case degli italiani, e non solo, rivoluzionando il concetto di lavoro. Forse per sempre. E se nelle scuole e nelle università al termine della pandemia si è tornati fra i banchi, facendo diventare la cosiddetta DAD, o didattica a distanza, un ricordo ben lontano, per molti lavoratori lo “smart” è divenuto la normalità. Fino a diventare una pretesa.

La nuova esigenza del lavoro da casa

«Durante i colloqui di selezione, una delle domande più frequenti che mi viene posta è se è possibile lavorare da casa. Questa richiesta riflette un cambiamento nelle priorità dei candidati, che ora cercano maggiore flessibilità e un migliore equilibrio tra vita professionale e personale». A raccontarlo è Elisa Severa, HR manager e consulente esperta in orientamento professionale. Guardando i dati, secondo l’Osservatorio Smart Working, nel 2020 oltre sei milioni di persone lavoravano da remoto, tra dipendenti del settore pubblico e privato. Solo un anno dopo questo numero era diminuito oltre un terzo, arrivando a circa 4 milioni.

Numero che si è stabilizzato fino al 2024 quando il numero di impiegati che è ricorso allo smart working è tornato ad aumentare, con qualche differenza tra piccole e medie imprese. Prendendo come anno di riferimento il 2019, inoltre, vediamo come nel complesso il numero di persone che ha lavorato da remoto nel 2024 è stato di molto superiore rispetto a quello del 2019: tre milioni e 750mila contro appena 570mila. E secondo le stime dell’Osservatorio del Politecnico i lavoratori da remoto dovrebbero aumentare ancora nel 2025 in tutte le tipologie di imprese e nella pubblica amministrazione.

Un’attrattiva per le aziende

«Le aziende che offrono modalità di lavoro flessibili tendono ad attrarre un numero maggiore di candidati qualificati, mettendo in evidenza l’importanza di adattarsi a queste nuove esigenze» spiega Severa, aggiungendo però che è necessario fare una differenziazione tra smart e remote working. Il primo, infatti, «è un approccio più flessibile che consente al lavoratore di gestire autonomamente tempi e luoghi di lavoro». Diverso è invece il remote working, che «consiste nel lavorare da un luogo diverso dall’ufficio, spesso con orari e compiti definiti». Ecco, quindi, che il tipo di lavoro da remoto resosi necessario durante la pandemia si è evoluto oggi in quello che viene definito smart working. Ed è importante notare la differenza fra i due, ovvero un tentativo di bilanciare la presenza e la distanza senza tornare completamente al passato.

Nonostante ciò, il cosiddetto “ritorno in ufficio” è diventato un tema alquanto importante fra le aziende. Dai casi di Amazon e Unipol che hanno richiesto la presenza dei propri dipendenti cinque giorni alla settimana, fino a Tesla e OpenAi il cui CEO, Sam Altman, ha dichiarato che il lavoro da remoto è «uno dei peggiori errori dell’industria tecnologica da molto tempo a questa parte». Tuttavia, alcune aziende invece hanno deciso di puntare su questa nuova formula lavorativa come Tim e Luxottica.

L’incubo del burnout

Dopo la pandemia però non è solo cambiato il modo di lavorare da un punto di vista fisico, ma anche l’approccio umano. «La formazione post Covid-19», spiega Severa, «deve essere cura e facilitazione, dialogo umano. Parlo di resilienza, gestione del tempo, equilibrio emotivo, tutti aspetti diventati essenziali per poter lavorare in modo sano».

Se c’è infatti una parola che dal Covid sembra risuonare sempre di più nel mondo del lavoro è burnout. Una condizione di malessere silenzioso ma evidente, che si nasconde dietro risposte spente durante i colloqui o al tentativo disperato di uscire da situazioni lavorative eccessivamente pesanti e difficili da gestire.

Le principali cause di burnout post-covid riscontrate da Severa sono varie. Dalla mancanza di confini chiari tra lavoro e vita privata all’isolamento sociale che ha privato molte persone del sostegno umano in momenti duri. A questo si uniscono l’incertezza costante che ha minato la sensazione di controllo e stabilità, un sovraccarico emotivo spesso ignorato e il senso di colpa e fallimento di chi ha perso il lavoro e non riesce più a performare come prima.

Il burnout, infatti, non colpisce solo chi è sovraccaricato dal lavoro, ma anche chi è disoccupato e per questo si sente perso e fatica a trovare un senso al proprio ruolo professionale. Chi rimane senza lavoro, o si trova improvvisamente fuori dal mercato, si porta dentro un enorme carico emotivo. Da molte consulenze di Severa emerge infatti che in molti casi i candidati si sentono inadeguati, falliti o bloccati. «Non è solo un problema di competenze, ma di identità professionale. In questi casi il mio compito è aiutare a risignificare il percorso e a ritrovare una direzione per guardare il futuro con occhi nuovi».

Un approccio più sano al mondo del lavoro

Oggi i candidati non cercano più solo un’opportunità: cercano sollievo, respiro e spazi di umanità. Sono quindi anche le realtà aziendali che devono cercare di adattarsi, creando ambianti in cui i dipendenti riescano a recuperare motivazione e fiducia. Come recruiter nelle aziende, Severa riscontra infatti «team provati, culture organizzative fragili e poca consapevolezza di quanto il benessere sia ormai una leva di competitività».

È tra le aspettative dei candidati e le reali possibilità delle aziende che si colloca un nuovo tipo di formazione e mediazione da parte dell’HR. «Nei percorsi formativi che conduco, il burnout emerge anche se non lo si nomina. Le persone sono più distratte, più fragili, meno motivate a mettersi in gioco.

Prima di insegnare competenze tecniche o rafforzare le soft skills, mi ritrovo a dover creare uno spazio di sicurezza e riconnessione dove le persone possano recuperare motivazione e fiducia». Il recruiter oggi è ancora di più un ponte tra persone e organizzazioni, un punto di riferimento per facilitare i cambiamenti e offrire nuove direzioni. «Nel mio lavoro cerco di dare voce a quello che spesso viene nascosto per costruire insieme nuove strade e ritrovare motivazione e significato nei percorsi professionali. Credo che affrontare il burnout, riconoscerlo e nominarlo sia un atto di rispetto per sé e per gli altri».

Elena Betti

Classe 2001, Laureata in Discipline dello Spettacolo e della Comunicazione all'Università di Pisa

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