La Cop29 a Baku e i grandi leader assenti

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Una conferenza delle Nazioni Unite per combattere l’emergenza climatica ma senza i leader dei Paesi più inquinanti. Un confronto per l’ambiente tra i vertici mondiali tenuto a Baku, città fondata sul petrolio. Un combustibile definito «un dono di Dio» proprio dal presidente azero, Ilham Aliyev. Queste sono solo alcune delle controversie della Cop29, in un’edizione che ha lo scopo di definire un nuovo obiettivo d’investimenti a favore del clima, il New Collective Quantified Goal (NCQG). Sulla conferenza, iniziata l’11 novembre e che terminerà il 22, aleggia però l’ombra della vittoria elettorale di Donald Trump, mentre cresce la polemica per le assenze eccellenti di quest’anno. 

La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici 

Per capire però cos’è la Cop, la Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, è necessario fare un passo indietro. L’esigenza di intervenire globalmente sul clima risale al 1990. Anno in cui l’Intergovernmental Panel on Climate Change, il foro scientifico istituito nel 1988 dalle Nazioni Unite per studiare il riscaldamento globale, mette in guardia sull’aumento delle emissioni antropogeniche di gas serra, derivato dall’uso dei combustibili fossili. Così l’Unione Europea a fine anni ’90 si pone l’obiettivo di stabilizzare entro il 2000 le emissioni di anidride carbonica sul livello registrato nel 1990. Gli stati membri devono pianificare e sostenere iniziative per la tutela dell’ambiente e a favore dell‘efficienza energetica. 

Questo principio diventerà la base anche della Convenzione quadro delle Nazioni Unite, un trattato internazionale, in vigore dal 1994 e negli anni ratificato da 195 Paesi, avente lo scopo di stabilizzare la concentrazione atmosferica di gas serra. È proprio per monitorare questi progressi nel trattare il cambiamento climatico che ogni anno vengono tenuti incontri formali tra le parti firmatarie del trattato: le Conferenze delle Nazioni Unire sul cambiamento climatico. 

L’Accordo di Parigi

Il primo obiettivo di riduzione delle emissioni legalmente vincolante è stato però stabilito nel 1997 con il Protocollo di Kyoto ed è scaduto nel 2020. Tuttavia, l’impegno a favore del clima era già stato rinnovato nel 2016. Da quell’anno infatti la Conferenza comprende anche gli incontri dei firmatari dell’Accordo di Parigi, ad oggi al centro della discussione in vista dell’imminente ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. 

Questo trattato internazionale vincola giuridicamente i suoi firmatari affinché agiscano per combattere i cambiamenti climatici. Nello specifico, nel 2015, 194 Paesi si sono presi l’impegno di mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 2°C, cercando di circoscriverlo a 1,5 °C. È proprio per questo che l’Unione Europea ha elaborato il Green Deal. L’obiettivo è far sì che l’economia del Vecchio Continente diventi climaticamente neutra entro il 2050. 

L’ombra repubblicana

Tra i Paesi legalmente vincolati all’Accordo di Parigi potrebbe presto essercene uno in meno. Uno degli attori fondamentali nella gestione del riscaldamento globale: gli Stati Uniti d’America, tra i più grandi responsabili dell’aumento delle emissioni di gas serra in atmosfera. Secondo la  pubblicazione scientifica online, Our World in Data, il Paese nordamericano avrebbe infatti generato da solo un quarto delle emissioni cumulative dal 1751 al 2017.  

La posizione di Donal Trump sul cambiamento climatico è da tempo nota. Durante il suo primo mandato alla Casa Bianca, il Tycoon aveva già firmato un ordine esecutivo per sottrarre il suo Paese all’Accordo di Parigi. Tuttavia, la decisione presa a fine quadriennio, fu subito annullata dalla successiva amministrazione democratica. La storia sembra destinata a ripetersi. Il New York Times sostiene che Trump  avrebbe già preparato le carte necessarie per ritirare nuovamente gli Stati Uniti dagli Accordi, subito dopo l’insediamento in programma il 20 gennaio. 

Gli assenti e le controversie

Tuttavia, a far discutere non è solo l’impegno futuro degli Stati Uniti per il clima, ma anche quello presente. Joe Biden ha infatti disertato la Cop29, mandando una delegazione. Ma il presidente americano è solo il primo degli assenti in un summit per l’ambiente all’insegna delle defezioni. Specie tra le fila dei leader dei Paesi più influenti e climaticamente più impattanti. Come, storicamente, è l’Unione Europea. 

Per il Vecchio Continente mancherà la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il primo ministro dei Paesi Bassi Dick Schoof. E se per la Gran Bretagna è presente il premier inglese Keir Starmer, manca Re Carlo III.  Al tavolo delle trattative non si siederanno neanche il presidente cinese Xi Jinping e quello del Brasile Lula. Assenti anche il primo ministro australiano Anthony Albanese, quello del Canada Justin Trudeau, il primo ministro indiano Nerendra Modi e il presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa.

La Papua Nuova Guinea ha invece disertato la Cop29 come atto di protesta. A fine ottobre, il ministro degli esteri, Justin Tkatchenko, aveva già annunciato il forfait. Un vero e proprio boicottaggio da protrarre fino a quando «i grandi inquinatori non si daranno una regolata». Tkatchenko aveva anche puntato il dito contro «i consulenti» ai quali andrebbe la gran parte dei fondi investiti dalle nazioni industrializzate.

Il primo ministro della Papua Nuova Guinea James Marape non si è quindi presentato in Azerbaijan, sottolineando come: «Il dibattito sul clima è incompleto senza un’azione concreta per preservare le foreste pluviali del mondo». Il Paese, con una superficie che non arriva a costituire l’1% della superficie terrestre, possiede infatti la terza più grande foresta pluviale tropicale rimasta sul pianeta e ospita il 6-9 per cento della biodiversità terrestre.

La finanza climatica

L’agenda della Cop29 ruota attorno a un punto fondamentale: stabilire un nuovo obiettivo di finanza climatica. Quest’espressione comprende tutti i flussi di denaro destinati a contrastare il cambiamento climatico. I soldi possono essere investiti per operazioni di mitigazione, ovvero di riduzione delle emissioni di gas serra, di adattamento, di gestione del rischio esistente o per risarcire le perdite e i danni creati dagli eventi meteorologici estremi. 

La maggior parte di queste spese, così come il finanziamento della transizione verso un’economia sostenibile dei Paesi in via di sviluppo, spettano agli stati industrializzati, in quanto storicamente principali responsabili dell’aumento del gas serra. Nel 2009 i Paesi ricchi si impegnavano a versare, entro il 2020, 100 miliardi di dollari all’anno a favore del clima. L’Accordo di Parigi ha prolungato l’obiettivo di investimento fino al 2025. Tuttavia, questo traguardo sarebbe stato raggiunto solo nel 2022 con un totale di 106,8 miliardi investiti. 

Il NCQG

Per il New Collective Quantified Goal è quindi necessario stabilire un obiettivo d’investimento che possa fare la differenza, ma che sia al contempo raggiungibile. Sono aperte le negoziazioni. L’Africa Group chiede 1300 miliardi da raccogliere entro il 2030. L’Arabic Group fissa il tetto a 1100. E ancora, l’Occidente vorrebbe che anche Pechino contribuisca alle spese. La Cina formalmente viene ancora considerata tra i Paesi in via di sviluppo, nonostante sia profondamente cambiata da quando nel 1992 firmò la Convenzione quadro delle Nazioni Unite. 

Da qui al 22 novembre la partita è ancora lunga e da giocare su più fronti. La presidenza azera negli 11 punti qualificanti della conferenza non ha inserito l’abbandono ai combustibili fossili, nonostante questo fosse proprio l’impegno concordato durante la precedente edizione. Lo spettro di Trump aleggia sulla conferenza, così come la conseguente possibilità dell’abbandono da parte degli States degli obblighi climatici, nonché del fondo a sostegno dei Paesi più esposti ai danni del clima. E ancora, il punto d’incontro tra gli interessi delle diverse nazioni coinvolte sembra sempre più difficile da trovare. Tutto questo in un quadro ambientale preoccupante, con gli effetti del cambiamento climatico destinati a mettere sempre più in ginocchio il mondo. 

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