Sono salite a 139 le vittime dell’attentato di venerdì 22 marzo al Crocus City Hall di Mosca. Un attacco nel cuore della Russia rivendicato quasi subito dall’Isis. In particolare dalla sua cellula IS-KP, basata nella regione del Khorasan nell’est Afghanistan. Eppure, fino a lunedì 26, dal Cremlino nessuna conferma di questa versione. Poi a spezzare il silenzio ci ha pensato il presidente Vladimir Putin. Ma il suo discorso agli ufficiali di governo, più che una presa d’atto, è sembrato un velo di Maya mal riuscito per coprire l’indice ben puntato su Kiev.
Isis responsabile, ma…
«Sappiamo che l’attacco è stato commesso da estremisti islamici. Ciò che ci interessa sapere, però, è chi è stato il mandante, chi lo ha ordinato». Lo sguardo di Putin è diretto a Volodymyr Zelensky. Non c’è più traccia del lutto rigido e istituzionale che aveva mantenuto durante le giornate di lutto nazionale. Quelle accuse che sabato si erano limitate a un generico «qualcuno aveva preparato ai terroristi una finestra per attraversare il confine ucraino», questa volta trovano maggiore spazio. Specchio di una strategia comunicativa che nei giorni passati tutte le televisioni e i media di Stato avevano già adottato.
Putin questa volta non frena la lingua, ma la srotola senza badare a mascherare i suoi sospetti. E poco conta se questi siano già stati ampiamente smentiti da Kiev e dai servizi segreti statunitensi. La propaganda putiniana lavora per consolidare il fronte del consenso interno. Anzi, per riparare le crepe in una sicurezza che le vuote promesse dello zar avevano garantito ai cittadini. Ed ecco allora che l’attentato di venerdì 22 diventa un possibile «anello di congiunzione di una serie di tentativi da parte di coloro che dal 2014 combattono contro la Federazione Russa per mano del regime ucraino».
Ce n’è per tutti, anche per Washington. Una Guerra Fredda a distanza e in piccolo – quella tra Putin e Biden – che sfocia nell’intelligence. «Gli Stati Uniti, attraverso vari canali, stanno cercando di convincere tutti che non c’è traccia di Kiev». Un eco quasi perfetto delle dichiarazioni di Maria Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri: «Gli Usa stanno usando l’Isis come uomo di paglia per proteggere Kiev». Ma per il Cremlino l’obiettivo del più sanguinoso attentato in terra europea è chiaro, diffondere il panico nella società russa. Un atto intimidatorio di cui rimane da definire una questione non secondaria: «Chi ne ha tratto beneficio?».
La strategia più semplice
«Sarebbe cinico e controproducente per Mosca suggerire che la colpa sia attribuibile all’Ucraina». Erano arrivate già da Parigi, con le parole del presidente Emmanuel Macron, le prime sirene riguardo alla campagna di disinformazione russa. Dalle connessioni con Zelensky un po’ campate per aria alle accuse esplicite a Kiev di aver finanziato i quattro terroristi.
Era pronosticabile. Cinque giorni dopo la rielezione, Vladimir Putin si trova tra le mani una patata bollente. Proprio lui, che si era presentato come l’unico realistico e affidabile candidato nelle ultime elezioni. Proprio lui, che aveva garantito ai suoi 143 milioni di cittadini protezione all’interno della Grande Madre Russia. E ora si trova con un teatro incenerito per metà e almeno 300 persone tra deceduti e feriti in condizioni critiche. In questi frangenti, il politico esperto – quale Putin certamente è – sa che la cosa più comoda e veloce per riguadagnarsi la coesione e il sostegno del popolo è trovare un nemico esterno comune. E quale capro espiatorio più facile di Volodymyr Zelensky e dei suoi amici occidentali?