E’ un mondo di conflitti, di violenze, di violazioni sistematiche dei diritti umani e di povertà. Dagli anni Sessanta a oggi, il numero delle persone in fuga è aumentato drammaticamente: rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni. In base all’ultimo censimento realizzato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) sono 70,8 milioni le persone costrette a fuggire, a lasciare la propria casa o il proprio Paese. 25,9 milioni sono rifugiati e più della metà di età inferiore ai 18 anni. Un’istantanea che mostra l’intensificarsi di un fenomeno, che interessa tutti i continenti, legato in modo indissolubile a gravi crisi politiche ed economiche.
Dal Venezuela la carovana dei caminantes: destinazione Colombia e Perù
Con le suola delle scarpe consumate dalle centinaia di chilometri percorsi a piedi, i caminantes venezuelani sono oggi il simbolo della sofferenza e delle difficoltà di chi deve scegliere se sopravvivere o morire. In base ai dati dell’Unhcr, relativi a gennaio 2019, sono oltre un milione i venezuelani in fuga, che hanno varcato il confine colombiano, e mezzo milione quelli che hanno trovato accoglienza in Perù. La speranza di queste persone – la cui maggioranza, soprattutto bambini, è mal nutrita o soffre di denutrizione cronica – è riposta oramai nell’apertura delle frontiere dei Paesi limitrofi.
Nella prospettiva di ritrovare una vita normale, lontana dagli stenti e dalla povertà, i migranti venezuelani sono l’effetto di una delle crisi politiche ed economiche in corso più drammatiche al mondo, la cui soluzione sembra per ora lontana. Eletto nel 2013, il presidente Nicolàs Maduro in sei anni di governo ha aggravato una situazione economica già molto compromessa.
A mettere in ginocchio il Paese l’iperinflazione e il crollo della produzione petrolifera. Scosso da tensioni sociali e da episodi di violenza, aggravatesi tra il 2016 e il 2018, il Venezuela a distanza di anni è uno Stato dal tessuto sociale più che sfaldato, dove, nonostante la breve parentesi di Juan Guaidò, Maduro continua a resistere.
S.o.s Rohingya, oltre 800 mila gli sfollati nel vicino Bangladesh
Parlare del Myanmar oggi significa ricordare la difficile battaglia di Aung San Suu Kyi, ma anche le tante ombre che oggi offuscano la sua lunga lotta non violenta contro la dittatura militare birmana e le violazioni dei diritti umani. Il ritratto a tinte fosche del Premio Nobel per la Pace, San Suu Kyi, nasce dal suo silenzio sui Rohingya.
Un popolo intero costretto a emigrare, ad abbandonare il nord ovest del Myanmar – lo Stato del Rakhine – dove dalla fine degli anni Settanta era stato relegato dalla dittatura militare. Oggetto di persecuzioni, nel 2018 sono state oltre 800 mila le persone sfuggite alle violenze brutali dei militari birmani: villaggi interi dati alle fiamme, migliaia le donne e le bambine violentate, altrettante i giovani uccisi.
Quella dei Rohingya è un’altra carovana di disperati che a piedi tentano di trovare rifugio in Bangladesh, dove negli ultimi due anni sono sorti campi profughi, stracolmi e pressoché inaccessibili.
Yemen, il conflitto dimenticato
Secondo le Nazioni Unite, dopo la Somalia e il Sud Sudan, è in Yemen che si sta consumando una delle peggiori carestie mai registrate dalla fine della secondo conflitto mondiale. Sono migliaia le vittime, soprattutto, tra i bambini. Ma a chi muore di stenti, in un Paese già molto povero, prima ancora della guerra iniziata nel 2015, si aggiungono le vittime degli scontri e dei bombardamenti.
Quella in Yemen è una guerra silenziosa e semi-sconosciuta, di cui finora si è parlato poco, se non per ricordare che tante delle armi impiegate nel conflitto tra i ribelli Houti e il Governo di Sana’a, provengono dai Paesi occidentali: Italia, Germania, Francia, Stati uniti. Fino a oggi la guerra civile yemenita ha costretto oltre due milioni di persone a lasciare il Paese per trovare rifugio nei Paesi vicini della Penisola Arabica. Anche se, la maggiore parte dei civili non ha i mezzi per fuggire dalla guerra.
Un conflitto che nasconde uno scontro tra “titani”, tra Iran e Arabia Saudita, impegnati a muovere i fili del potere politico. Secondo stime recenti sono 60 mila i morti sotto le bombe e 90 mila i bambini deceduti a causa della malnutrizione. A cui da due anni si è aggiunta un’epidemia di colera tra le più devastanti, con un milione di casi già segnalati e 110 mila quelli stimati solo a inizio 2019.
Repubblica Democratica del Congo, ritratto di un Paese in guerra
Dalla dichiarazione d’indipendenza nel 1960, in 40 anni, la Repubblica Democratica del Congo ha conosciuto diversi conflitti, che hanno coinvolto varie fazioni ribelli contro il Governo centrale. La violenza e le sistematiche violazioni dei diritti umani hanno costretto migliaia di civili a lasciare il Paese per trovare rifugio, anche questa volta, negli Stati confinanti: Angola e Uganda.
Il Congo, ricco di risorse naturali, ha visto frantumarsi la sua unità subito dopo aver ottenuto l’indipendenza. Due le province, Katanga e Sud Kasai, che per prime hanno dichiarato unilateralmente la propria sovranità scatenando un conflitto armato che si è concluso con l’intervento dei Caschi Blu dell’Onu nel 1962.
Dal 1963 guerre armate e conflitti etnici hanno interessato senza sosta il Paese. Nel 1997 una ribellione armata, appoggiata dal Rwuanda e dall’Uganda, ha rovesciato il regime di Mobutu Sese Seko e instaurato un nuovo Governo. Gli anni successivi fino al 2012 hanno visto il susseguirsi di altre crisi politiche, nonostante lo svolgimento di elezioni democratiche per la prima volta nel 2006.
Lotte tra tribù e gruppi etnici hanno lasciato il segno con imponenti massacri nel nord est del Paese. E’ sempre l’Unhcr a fornire i dati: 7 mila le persone costrette a lasciare il Congo solo a inizio giugno.
311 persone al giorno hanno tentato di superare la frontiera per raggiungere l’Uganda, dove il centro di accoglienza di Kagoma ospita già 4.600 profughi, mille in più rispetto alla capienza massima.
L’Unhcr ha stimato che oggi la popolazione di sfollati congolesi è tra le dieci più grandi al mondo, circa il 55% della popolazione sono bambini, molti dei quali attraversano i confini ugandesi o angolani da soli, senza i genitori.