Vittorio Sgarbi e il suo “Insulto ergo sum”

Ormai siamo in grado di studiare Vittorio Sgarbi come Lévi-Strauss faceva con le tribù del Brasile. Critico d’arte e opinionista, sin dagli anni ’90 dissemina tra i più noti talk show le sue pillole di tuttologia; da Che tempo che fa, dove illustra alcuni dipinti del Caravaggio, al Maurizio Costanzo show, in cui è la “fenomenologia Belen” a interessargli. Alieno a qualsiasi comportamento normale, si è messo in trono ad ambienti diversi (Barbara d’Urso et similia) e ci ha gratificati col suo verbo: un compendio di scomposti turpiloqui rivolti a chiunque gli sia contro, come accaduto al giornalista Sebastiano Grasso, responsabile delle pagine dell’arte del “Corriere della Sera”.

Ma l’offesa, che certo sazierà il critico come un alimento in grado di nutrirlo, a volte non paga, specie se lontano dalla legge degli ascolti. E anzi, adesso a pagare dovrà essere lui.  Sono infatti 24 mila euro oltre alle spese, tra risarcimento e sanzione, quelli che Sgarbi dovrà versare per aver insultato il giornalista con alcuni sms ingiuriosi, e per l’accusa di diffamazione a mezzo stampa. Una decisione stabilita dalla Corte d’appello civile di Milano, presieduta da Walter Saresella, che ha confermato così il giudizio di primo grado e quadruplicato però l’entità dell’ammenda.

L’accusa si riferisce a un attacco dell’intellettuale a Grasso nel 2011 quando, contrariato da un articolo apparso sul quotidiano che criticava il Padiglione Italia della Biennale di Venezia da lui curata, Sgarbi ha prima attaccato l’autore del pezzo tramite alcuni sms, e poi con un articolo pubblicato su “Il Giornale”. «Grasso ha reso la pagina dell’arte del Corriere una riserva di favori e dispetti», aveva scritto lo studioso. E così la miccia si è accesa, come accaduto in circostanze passate.

Tra queste, al vicepremier Luigi Di Maio Sgarbi aveva più volte augurato la morte. Una sorte toccata ad altri sciagurati con identica veemenza, il più illustre dei quali era stato il suo maestro e critico d’arte Federico Zeri. Insomma, una simbolica “uccisione del padre” che ha accompagnato lo studioso lungo l’intero arco della sua carriera di polemista per vocazione.

Vittorio Sgarbi durante il suo spettacolo “Caravaggio”

Eppure lui, che pare aver eletto a stile di vita un perentorio Insulto ergo sum, riempie i teatri portando in scena Leonardo, tronfio delle competenze artistiche che uno storico dell’arte non può non possedere. Ci mette in aggiunta solo il carico da undici di un cinismo e un estetismo dannunziano d’altri tempi. Perché Sgarbi è portatore di quella cultura selvaggia di cui il suo ciuffo si è fatto simbolo. Utile da studiare come credeva Lévi-Strauss a proposito dei suoi indigeni, per la possibilità di vedere in lui le nostre stesse tare e riuscire a tenercene lontani.

 

 

 

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