Tullio Pericoli, dall’alto dei suoi 87 anni, conserva ancora quella luce nello sguardo che solo gli artisti hanno. Nato nelle Marche nel 1936, più precisamente tra le colline picene, a Colli del Tronto, dal 1961 vive a Milano.
Una vita dedicata all’arte, ma anche al mondo del giornalismo, attraverso ritratti, vignette e disegni pubblicati per decenni su tanti quotidiani italiani. Tra di essi “Il Giorno” e “L’Espresso”. Abbiamo ripercorso la vita dell’artista attraverso le sue parole, i ricordi, le esperienze e i personaggi. Trovando, nel frattempo, spunti e indizi sull’arte di oggi e quella di domani.
La sua carriera si è intrecciata con il giornalismo, quali crede che siano oggi le differenze e similitudini tra il lavoro di un artista e quello di un giornalista?
«Beh, io non ho mai avuto esperienza di giornalismo nel senso normale del termine. Ho fatto molti disegni per i giornali. Mi viene in mente una cosa che inventai con il direttore dell’Espresso. Gli dissi ‘i miei disegni quando sono pubblicati accanto a dei titoli cambiano di significato’. Cioè, se io mettevo un disegno di due che si baciano vicino al titolo che diceva Storie d’amore, quel disegno parlava d’amore. Se invece il titolo diceva Storie di odio, quel bacio diventava un bacio rubato.
Allora avevamo inventato che di volta in volta mi veniva detto il titolo e magari anche il sommario, e immaginavo il disegno con già il titolo. Ecco, questa è la cosa più particolare del disegno per i giornali. Che l’immagine viene immediatamente dalla nostra mente confusa e decifrata attraverso le parole che sono accanto. Il ruolo della parola sulla pagina del giornale è molto importante».
In una sua recente intervista su Repubblica sosteneva che oggi si valuta quasi più la storia degli artisti rispetto alle loro opere, può spiegarci questo concetto?
«Ricordo quell’intervista. Sono partito da una dichiarazione fatta dal nuovo direttore della Biennale di Venezia. Stava esponendo il programma e i nomi degli artisti che aveva invitato. E mi sono accorto che non aveva mai nominato la parola qualità o valore dell’opera.
Che nessun artista era stato scelto perché faceva cose belle. Io ho sempre pensato, fin da quando è nata la Biennale di Venezia, che si fossero scelti gli artisti più significativi di un certo periodo storico. Invece le scelte erano fatte in base alla provenienza geografica e all’orientamento sessuale. Cose che riguardavano un contesto di eventi che non avevano niente a che fare con il prodotto artistico.
Credo che il mondo di oggi valuti molto di più chi sono e da dove vengono i personaggi, piuttosto che il loro reale valore e talento. Non succede soltanto nel campo artistico, succede dappertutto. Vi faccio un esempio. Io sento molto parlare di un personaggio, di un cantante che si chiama Fedez. Ecco, di Fedez io so un sacco di cose, ma non vi saprei citare una sua canzone, non la conosco. L’informazione oggi ci riempie la mente di cose che sono il contorno del vero, del cuore del fatto. Cioè se io sono un bravo cantante per prima cosa devono essere belle le mie canzoni, poi saranno note anche le mie vicende personali».
E crede c’entri il politicamente corretto nella valutazione degli artisti?
«Non credo che c’entri il politicamente corretto. C’è un disinteresse, secondo me, verso l’impegno e la fatica che costa capire il valore delle cose che si fanno. Se io faccio il pittore è importante che si capisca se vale la mia pittura. È un po’ più complicato entrare in queste cose, costa più fatica. Ecco, per natura il nostro corpo tende a fare poca fatica, e allora ci bastano le informazioni superficiali, ci fermiamo lì. Penso che l’informazione abbia un grande responsabilità in questo».
In un’altra intervista ha dichiarato che nel momento in cui realizza ritratti cerca di andare oltre al volto. Lei quanto mette della sua famiglia nelle sue opere?
«Più che della mia famiglia io ci metto molto di quello che sono io, di quello che è stato mio padre, di quello che saranno i miei figli e di quello che sono stati forse i miei nonni. Io ho avuto uno zio che è stato molto importante, più di quanto io pensassi ai tempi in cui lo frequentavo. Man mano che invecchio mi accorgo come questo personaggio abbia influenzato il mio percorso lavorativo.
Capiterà a tutti, forse anche a lei quando invecchierà: si tende a ripercorrere, viene naturale ripercorrere il proprio passato e mi accorgo di quanto siano state importanti la mia famiglia i miei genitori. È stato molto importante il luogo dove sono nato, i luoghi dove ho passato la mia infanzia, la mia adolescenza e le persone che ho frequentato allora. E queste cose le sto scoprendo sempre più importanti».
Facciamo un salto indietro nel tempo. Lei si è iscritto a Giurisprudenza, ma poi ha lasciato gli studi e ha avuto un incontro con Cesare Zavattini. Che peso ha avuto per la sua carriera?
«Quell’incontro ha cambiato la mia vita. Mi trovavo a tu per tu, un ragazzo della sua età, con un personaggio molto famoso, molto importante. Zavattini è stato uno dei più grandi personaggi della cultura italiana, molto più importante di quanto si scriva o si dica normalmente. E io mi trovo davanti a lui, con lui che guardava i miei disegni. Quindi può immaginare tutta l’ansia che avevo, l’importanza che aveva questo incontro. E l’incontro è stato importante, sia perché i consigli di Zavattini mi hanno fatto decidere di andare a Milano. Ma anche perché lui coraggiosamente mi disse ‘tu devi smettere di studiare legge, ma devi fare questo mestiere perché sei bravo’.
Ecco, quando vedi che una persona molto più adulta di te e molto più importante di te, ti dice che sei bravo, allora immediatamente diventi un po’ più bravo di quanto fossi prima. Credi di più in te stesso. Questo fu l’effetto dell’incontro. E in più mi diede anche le possibilità pratiche con due lettere: una per il direttore del quotidiano Il Giorno, che era molto importante; e una per un giornalista del Giorno che si chiamava Giancarlo Fusco. Con queste due lettere in mano mi sentivo come avessi due passaporti ormai con il bollo sopra dello Stato, il timbro che potevo affrontare questi confini e queste barriere che erano la grande città, il mondo dell’arte, eccetera.
Fu un incontro che mi stupisce tuttora. Un personaggio che viveva tra l’Italia e l’America, che aveva fatto dei film, aveva scritto dei libri importantissimi, che mi riceveva dalle 09:00 stando con me fin quasi alle 12:00. Io, un ragazzo che veniva da un paese delle Marche e che andava lì con dei disegni. Mi colpì la sua generosità».
Oltre ai giornali lei ha anche avuto delle avventure in teatro, cosa le ha lasciato l’esperienza teatrale?
«Mi sono accorto che non mi lasciava niente. L’impegno su un lavoro, di solito, lascia degli strascichi. Lascia una ricchezza, lascia delle esperienze. Ecco, mi ero accorto che l’esperienza teatrale alla fine era come una grande bolla che si sgonfia. Il teatro ha qualcosa di veramente straordinario: quando cominci un lavoro che ti può impegnare per un anno o sei mesi, in quel periodo tu non vivi d’altro, vivi solo di quello. Entri in una stanza, in una sfera di vetro dentro la quale c’è solo il teatro. Il mondo si trasferisce lì dentro. Allora probabilmente io mi aspettavo, una volta arrivata la prima teatrale, che dopo ci sarebbe stata nella mia testa una ricchezza di invenzioni. Invece non succedeva nulla, mi lasciava impoverito quasi, tanta era la passione.
E tale era il coinvolgimento nell’esperienza teatrale che era veramente esaltante. Anche perché dentro questa sorta di bolla che si creava all’interno del teatro non ero da solo. Attori, tecnici, fabbri, falegnami, sarte. Cosa buffa da fare, molto, i costumi. Ho cercato sempre di fare dei costumi che si costruissero. Un po’ come sculture, come scolpire una scultura dei personaggi. Non c’è stato qualcuno che mi ha indirizzato, mi sono trovato a doverli fare ho pensato di farli così.
Io capisco che cosa vuol dire fare l’attore e lavorare per queste per quel mondo. C’è qualcosa di particolare che viene iniettato nel sangue quando si fanno quei mestieri, soprattutto il teatro. Il cinema non lo conosco».
Tornando ai ritratti, quanto pesa per Tullio Pericoli il fatto di conoscere prima il soggetto che viene ritratto?
Normalmente si pensa che se uno conosce personalmente la persona ritratta sia più facilitato. Per me non è tanto vero. Intanto le facce, indipendentemente dal rapporto personale che si può avere o si può aver avuto, sono come delle mappe che vanno decifrate, che vanno lette.
E si deve capire il percorso che si deve fare. È come una grande carta geografica, cogliere le distanze. Perché tutti i nostri sentimenti, che noi esprimiamo attraverso la nostra faccia, poi alla fine per chi disegna non sono che tracce di matita o di penna. Sono degli spazi, sono delle righe più o meno lunghe, più o meno nere o più o meno forti.
C’è bisogno di annullare la conoscenza personale, un rapporto affettivo amichevole e guardare queste facce come fossero degli schermi sui quali bisogna leggere alcuni avvenimenti. Poi però c’è la parte affettiva o di conoscenza del personaggio. L’essenza della sua vita o del suo lavoro, quello è un momento successivo.
L’altra cosa che mi dava forza e piacere nei ritratti è che io mi accorgevo, da un lato, che nel mondo dell’arte, facendo il pittore per le gallerie, sentivo di non parlare a nessuno. Parlavo al mio mercante o a un collezionista. Mi sembrava di rivolgermi a delle persone che non vedevo. Non sapevo chi fossero, non sapevo cosa pensassero. Lavorando per i giornali sentivo di rivolgermi a qualcosa di vivo, di vero. Sentivo il commento. Il giorno dopo sentivo che il mio lavoro aveva un pubblico».
Delle tante opere che ha realizzato in carriera ce n’è una, o più di una, che col senno del poi non avrebbe fatto?
«Credo di no. Però giorni fa mi è capitato di ritrovare in un cassetto dei vecchissimi disegni che facevo per il Giorno degli anni ’60. Li ho riguardati e li ho richiusi subito, perché mi sono sembrati bruttissimi. Però non è che poi posso dire ‘quelli ho sbagliato a farli’. Non potevo non farli, non sapevo fare altro in quegli anni, non avevo il talento per farli più belli o migliori. Sapevo fare quella roba lì e non c’è da rammaricarsi. I talenti hanno una misura, non sono eccezionali.
Altri lavori di cui mi sia pentito non ce ne sono. Ci sono ci sono molte contraddizioni nel mio percorso. Al contrario di mio padre volevo che la mia vita fosse indirizzata verso la mia passione, il piacere di fare questo mestiere. E quando il piacere ti arriva dai giornali, o ti arriva dal teatro, o ti arriva da un libro, o ti arriva da una mostra, va sempre bene.
A volte si danno dei premi alla carriera degli artisti. Non c’è, secondo me, una parola più sbagliata di carriera. Gli artisti non nascono per fare carriera. Quando si fa il mestiere dell’artista, è perché si vuole cercare di scoprire una verità, di essere sinceri, di raccontare qualcosa di profondamente sincero. La parola carriera non c’entra».
C’è un’opera di qualche altro artista che le è capitato di guardare e ha pensato: “caspita, avrei voluto farlo io”?
«Una quantità enorme. Potrei fare un esempio non di un’opera, ma di un artista che ho studiato per anni, che si chiama Paul Klee. È un artista svizzero del secolo scorso. Io l’ho studiato per anni, fino a che ho fatto anche un lavoro su questo artista, anche insieme a Calvino. Per la verità, dopo averlo studiato per anni, ho cercato di capirlo, di entrare proprio quasi nella sua mano.
Decisi di fare una mostra a Milano dei miei disegni che avevano a che fare con questa ricerca su Klee. E allora chiamai Calvino e gli chiesi ‘Senti, io vorrei fare una mostra su Klee, mi piacerebbe fare un dialogo con scasso’. Lo scasso vuol dire che tu entri nel suo metodo, lo apri, magari lo rovini nel mentre. Però gli entri profondamente dentro, anche se non vuole ti apri la strada per entrarci.
Quando noi entriamo nell’anima di un artista, dobbiamo scassinare qualcosa per capirlo. Con una certa… non dico violenza, ma insomma senza tanti scrupoli. Adesso ci sono più filtri, ci sono più passaggi, ci sono più muri che si oppongono. Ed è una delle cose che rende difficile entrare nell’officina di un artista. Gli strumenti che noi usiamo sono strumenti che non aprono delle porte, ma alzano dei muri.
L’uso del computer, mi dispiace dirlo, è un po’ come creare uno schermo attraverso, tra noi e la realtà. Noi non siamo più il nostro corpo. Per capire, per fare, usiamo i tasti. La pittura sta per essere sostituita da mezzi tecnici che realizzano opere. Noi trascuriamo l’attività fisica della mano, del braccio, delle spalle, del nostro corpo. È una grande mancanza nelle opere se non c’è un coinvolgimento fisico. Si vede, si capisce anche nella scrittura.
Sono rimasto emozionato dal racconto di una giovane che aveva restaurato un’opera della Pinacoteca di Brera. Il volto di Cristo di Bramante. Restaurandolo aveva scoperto l’impronta di un dito della mano dell’artista, l’impronta digitale. E questo l’aveva profondamente colpita. Io la capisco, anch’io rimarrei emozionato se trovassi il pollice di Michelangelo impresso sulla superficie di un dipinto di Leonardo.
Credo che stiamo perdendo la sensazione dell’importanza del nostro corpo, di quanto il nostro corpo è coinvolto nella nostra attività mentale. Ricordo una frase di Giorgio Bocca che mi disse ‘A volte io mi accorgo che le parole mi vengono giù dai muscoli, dai nervi del braccio, dell’avambraccio’. Questa è una cosa che non andrebbe persa».
Cosa ne pensa in tal senso Tullio Pericoli dell’intelligenza artificiale?
«Si tratta di un mistero che abbiamo davanti. non so come si risolverà, che cosa produrrà. Veramente non ho idea. L’intelligenza artificiale ci sostituirà completamente e quello che ci può salvare è che noi, appunto, siamo fedeli all’attenzione verso il nostro corpo e la nostra mente e sappiamo che ognuno di noi è un individuo isolato, diverso da tutti gli altri e non può essere trasformato in un soggetto che vale per tutti.
La nostra mente davanti alla fatica si ritrae. Allora le cose che non ci danno fatica, come l’intelligenza artificiale, le assorbiremo come nulla perché sarà comodo. A un certo punto, però, ci accorgeremo di essere diventati artificiali anche noi. Non so prevedere il futuro, però è una cosa molto pericolosa».
E le immagini prodotte con intelligenza artificiale secondo lei sono considerabili arte?
«Un conto è dire che sono considerabili immagini credibili. Il Papa con gli scarponi da sci è credibile, anch’io ci ho creduto quando l’ho visto. L’arte è un’altra cosa. Che cos’è l’arte? Leonardo, Cattelan oppure Duchamp? Ci sono delle opere che hanno rivoluzionato il modo di vedere l’arte. Come Duchamp quando portò un orinatoio in un museo e sconvolse il modo di considerare l’arte.
Però se tu mi dici che al piano di sopra ci sono due stanze: in una c’è l’orinatoio di Duchamp, che ha sconvolto l’arte dell’Occidente per un secolo. E in un’altra un quadro di Morandi. Io vado a vedere il quadro di Morandi. L’opera di Duchamp mi interessa come un oggetto, come un passaggio cognitivo. Mi interessa perché ha avuto un’idea, sarà geniale ma l’opera in sé non mi interessa, non mi interessa vedere un oggetto che so già come è fatto, che non mi dirà nulla di nuovo. Invece se vado a vedere un quadro di Morandi, sono certo che troverò qualcosa che non avevo visto la volta precedente.
Gli artisti come i classici, le opere d’arte, devono sempre avere qualcosa da dire di nuovo. Per fare delle opere che continuano a parlarci anche nel tempo, dobbiamo coinvolgere tutti noi stessi. Tutto nella nostra parte fisica e mentale. E quindi l’intelligenza artificiale non potrà mai sostituire il corpo, potrà sostituire una serie di corpi che abbiamo deciso che sono quelli che ci interessano, ma poi arriverà un altro che sa qualcosa di più, perché è nato da una madre, un giorno, felice».
Ha mai vissuto un momento di crisi durante i suoi anni di lavoro, durante la sua carriera, che l’ha portata a mettere in discussione quello che stava facendo?
«Può capitare qualcuno abbia una crisi. Smette, magari per anni, poi riprende. Nella storia degli artisti queste cose succedono. A me non è successo qualcosa del genere, però. Separiamo il lavoro per i giornali da quello artistico. Quello per i giornali è diverso. Lì c’è una committenza, un pubblico, una riproducibilità dell’opera.
Mettiamo anche da parte l’opera. Il lavoro artistico è un lavoro che si rivolge… a chi si rivolge l’artista? Alla fine se cominciamo a scavare, scavare, scavare, infine l’artista si rivolge a Dio, si rivolge a qualcuno che è molto superiore a lui e che lo giudicherà. Non sai mai se ti giudicherà domani, o oggi pomeriggio, o fra cent’anni. È qualcosa che tu butti nel vuoto, nel futuro.
Mi ha colpito una frase che ripeteva spesso Alberto Giacometti. In un libro, in un diario che ha scritto un filosofo giapponese al quale Giacometti ha fatto molti ritratti. Anzi, più che fare molti ritratti lo ha fatto posare per anni per fargli un ritratto. Ma non gli veniva mai bene. Ne ha fatti parecchi, li ha buttati via, li ha cancellati, li ha rifatti. Lui cominciava, poi borbottava tra sé. ‘Io non ho coraggio’.
Io leggendo questa parola, coraggio, mi dico: ‘ma insomma, mi sembra un po’ esagerato questo coraggio’. Non è mica in guerra. Non rischia la vita. Però continuava a ripetere ‘Non ho il coraggio’. E fino alla fine Giacometti continuava tra sé ad accusarsi di non essere abbastanza coraggioso.
Voleva dire che lui metteva in gioco tanto di sé in quelle opere. Che il fatto che gli venissero male era come mettessero a rischio la sua vita, la fiducia in se stesso. Lui scommetteva così tanto e rischiava così tanto. Quando noi facciamo delle scommesse o rischiamo con altri, ci sono degli spettatori di queste scommesse. Ma quando la scommessa la facciamo con noi stessi, il rischio è tutto interno. E se questo rischio porta al fallimento può essere molto, molto doloroso. E Giacometti lavorava così. Aveva un impegno tale nelle opere che faceva, che sentiva di non avere abbastanza coraggio da rischiare.
Nell’opera, nel lavoro artistico è una continua sfida con qualcosa, con la materia che si usa, con gli attrezzi, con le opere. Tu metti in gioco quello che pensi di essere. Se questo quadro non mi riesce io ho fallito. Mi chiedeva se ho avuto dei momenti di fallimento. Sono continui, sono di opera in opera. In ogni opera si pensa ‘finalmente ce la faccio a fare, a capire, a raggiungere’. E poi ci si accorge che non è possibile. Allora si convive con una specie di accordo con se stessi, dove si cerca di… non dico di rischiare meno, ma di rischiare sapendo che una certa meta è irraggiungibile».