Joker: il dolore racchiuso in una risata


Quando un’opera artistica si rivela tanto disturbante da toccare delle corde sopite da tempo, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di speciale. Joker, il film di Todd Philips, è così: un diamante incastonato in un quadro di decadentismo, tanto crudo e diretto da ledere quasi fisicamente lo spettatore. Si esce dal cinema in balia di riflessioni scaturite da quello che in teoria sarebbe un cinecomic, ma che non potrebbe essere più reale di così.

In tanti, almeno una volta nella vita, ci siamo sentiti l’Arthur Fleck interpretato da un Joaquin Phoenix ai suoi massimi livelli. Un quadro claustrofobico di un invisibile tra gli invisibili, che ovunque si giri in cerca di una via d’uscita, non vede che muri intorno a sé. Le mani che gli vengono tese in segno di aiuto, non si rivelano altro che ulteriori pugnalate alla psiche, già labile, di un individuo fagocitato dal cinismo di una società che non ha più tempo per i deboli. La Gotham che ci viene presentata è un regno della corruzione, dove gli oppressi covano una rabbia crescente e i ricchi si fregiano, a torto, di poter risollevare il ceto medio dalle polveri di un’esistenza infelice.

Arthur Fleck è un uomo affetto da disturbi psichici, spesso si ritrova preda di una risata incontrollata, cui uno sguardo sprizzante malinconia funge da perfetto contraltare. Come il sorriso che cerca sempre di disegnarsi sul volto: un arcobaleno alla rovescia, da un lato l’euforia del desiderio, dall’altro il sapore amaro dei sogni interrotti. Lavora come clown per eventi, vorrebbe diventare il re delle Stand Up Comedy, ma non ne ha il talento necessario. Non può che limitarsi ad ammirare il suo idolo Murray Franklin (interpretato da Robert De Niro), brillante conduttore di un Late Show locale che segue ogni giorno dal tubo catodico.

La madre Penny, quando si rivolge ad Arthur lo chiama “Happy”, ma lui non è mai stato felice un solo giorno in vita sua. Un’infanzia drammatica e dai contorni sfocati, un presente che lo vede solo, tradito e relegato a un’esistenza in cui lo squallore pervade ogni elemento che lo circonda. Da un lavoro che gli offre solo umiliazioni, alla fatiscenza di un’abitazione condivisa con la mamma della quale si prende cura ogni giorno. Alla fine, semplicemente, si arrende al suo lato malvagio.

Il costume del Joker, un chiaro omaggio alla serie “Batman” con Adam West degli anni ’60

La fotografia del film è sospinta da tinte forti, ma non tanto da potersi definire accese, a eccezione di una delle scene finali. E’ come se, così come il protagonista, le immagini desiderassero esplodere in un urlo di gioia, senza  tuttavia riuscirci. Con la sua reinterpretazione del Joker, da sempre tra i villain più affascinanti del mondo dei fumetti, Todd Philips ha fatto centro.

Joaquin Phoenix incarna i connotati del personaggio con un’interpretazione che, non solo è credibile, ma riesce a trasportare lo spettatore nel suo mondo di sofferenza. Arthur Fleck è il fulcro della storia, il racconto procede mescolando ciò che è reale e ciò che è solo frutto della sua mente, il suo corpo si snoda e si contorce, quasi a voler comunicare un’angoscia che altro non è se non il preludio della sua trasformazione. Una regia ricca di scene d’azione che restituiscono un senso di caos incontrollato, movimenti di camera che vogliono quasi omaggiare lo Scorsese di Taxi Driver, ma che conservano comunque tutta la loro originalità. Il tutto accompagnato da una perfetta colonna sonora. Un film da vedere: una finestra su un mondo nascosto, una botta di pura ferocia che risuona sulle mura della nostra realtà.

Mauro Manca

Appassionato di sport e cinema. Scrivo per esigenza e credo in un'informazione libera e leale, amo raccontare storie che intrecciano il tessuto sportivo a quello sociale e politico.

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