Russia, quella rete di shell companies per evadere le sanzioni sui chip

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A Hong Kong in Bonham Strand, civico 135, sorge un grattacielo di vetro. Ci troviamo nel pieno del distretto finanziario della città. Al settimo piano dell’edificio, sulle targhette metalliche all’uscita degli ascensori, si possono leggere diversi nomi: Lazyg Cakes, Rikkon Holding, Olax Finance, Fortune Credit. Facile intuire si tratti di uffici. Le porte sono grigie, i numeri sulle porte consumati. Al campanello nessuno risponde, sembra tutto vuoto. L’unico segnale di vita è un piccolo pezzo di carta incastrato nella fessura della porta: un annuncio per il sistema di aria condizionata. Ma dietro a quelle porte, o meglio dietro a quei nomi, si nascondono quattro delle migliaia di aziende che dall’invasione russa in Ucraina del febbraio 2022 hanno permesso a Mosca di evadere le sanzioni internazionali. In particolar modo quelle sui chip e sui sensori per la produzione militare.

Aggirare gli ostacoli

Si tratta di cosiddette shell companies, letteralmente ‘società di comodo’. Vale a dire entità giuridiche che non svolgono alcuna attività operativa e che come asset dispongono solo di liquidità o mezzi equivalenti (come quote societarie). Possono essere sfruttate per scopi legali, come accentrare sotto un unico cappello varie holding di uno stesso gruppo. Ma anche per scopi illegali, per aggirare normative e favorire condotte illecite con lo schermo dell’anonimato.

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L’edificio di uffici ce sorge al numero 135 di Bonham Strand, a Hong Kong

Le quattro società al settimo piano di 135 Bonham Strand hanno proprio questo ruolo: fungere da anello riparativo della catena tra laboratori americani, fabbriche cinesi e armatori russi. Quella che funzionava senza il minimo intoppo fino a due anni fa, quando – in breve – i semiconduttori non si sono più fermati in Russia ma hanno portato la guerra in Ucraina. La prima reazione della comunità internazionale, in primis gli Stati Uniti, all’azione militare è stata l’imposizione di sanzioni e restrizioni commerciali. «L’accesso di Mosca alle tecnologie d’avanguardia americane e dei Paesi partner sarà interrotto», aveva annunciato l’assistente del Segretario al Commercio Thea Rozman Kendler. L’obiettivo era quello di prendere per il collo e strozzare l’economia russa. E al contempo, con il congelamento di tutte le ricchezze degli oligarchi, creare fratture tra il presidente Vladimir Putin e i suoi fedelissimi.

Inutile dire che, più di ottocento giorni dopo, la strategia è stata quantomeno ambiziosa. Non per gli intenti, quanto perché tenere sotto stretto controllo un mercato globale e globalizzato è impresa titanica anche per Washington. E alla fine sembra aver avuto, per certi versi, l’effetto opposto: non ha isolato Mosca, anzi le ha permesso di stringere legami più forti con gli alleati asiatici. Senza allentare la pressione su Kiev.

La marea si è spostata

Secondo il New York Times, dal 24 febbraio 2022 in Russia si sarebbero riversati chip soggetti a restrizioni per un valore di quasi 4 miliardi di dollari. A fornire riserve quasi infinite di beni tecnologici un insieme di oltre 6mila società, responsabili dell’organizzazione di 800mila spedizioni. Una vera e propria rete di approvvigionamento parallela e solidissima, tanto da permettere a Mosca – secondo i dati doganali – un import pari ai dati pre-guerra.

Per tenere in vita un tale meccanismo, Vladimir Putin ha bisogno di numerose spalle di appoggio. Prima delle quali è la Cina, attraverso cui passa circa il 29% di tutti i semiconduttori del pianeta. Le transazioni che prima si svolgevano in dollari, ora si completano con la moneta del Dragone (il Renminbi). Il Ministero degli Affari esteri cinese, in una dichiarazione, si è tirato fuori dalla questione: «Gli Usa dovrebbero riflettere sulle loro responsabilità nella crisi ucraina». E in effetti, per quanto riguarda i microchip, tutto parte dagli Stati Uniti, dove la merce inizia a essere lavorata.

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Un chip prodotto dalla americana Texas Instruments, trovato su un circuito di bordo di un missile russo in Ucraina

Da qui si procede alla vendita a distributori internazionali, senza che i produttori siano tenuti legalmente a tracciare dove finisca la loro merce. Cina, Turchia, India, Serbia, Singapore e Hong Kong: tutti interlocutori con cui nei mesi Mosca ha iniziato a collaborare per tenere in vita il flusso di chip militari. Shell companies, compagnie offshore… ce n’è di ogni tipo. Non appena le autorità riescono a stanarne una, al suo posto ne crescono altre tre o quattro. Talvolta con lo stesso proprietario, talvolta perfino all’interno del Nord America.

E porre fine a questo percorso ormai assodato è quantomeno difficile: gli Stati Uniti hanno elevata domanda ma capacità produttiva interna limitata. L’industria bellica, così come quella hi-tech, ha bisogno dei partner cinesi che fabbrichino, assemblino e confezionino la merce. «Abbiamo perso il controllo della produzione dei chip», è la disamina di Elina Ribakova, economista di un think tank di Washington. «La marea ormai si è spostata».

Chip di guerra a stelle e strisce

L’8 luglio un missile da crociera a lungo raggio Kh-101 colpisce l’ospedale pediatrico di Kiev. Sono due i morti e dieci i feriti, tra cui sette bambini. All’interno del missile, il materiale elettronico era tutto di provenienza americana. Il chip F.P.G.A. (Field Programmable Gate Array), cruciale per una rapida elaborazione dati tanto per le testate militari quanto per i modem internet e i sistemi antincendio, è prodotto da aziende come Advanced Micro Devices o Intel.

Dall’inizio del conflitto, in Russia sarebbero entrati oltre 390 milioni di dollari in F.P.G.A. Una spesa necessaria per il Cremlino dopo che i vari tentativi di rivitalizzare la produzione di microprocessori a livello nazionale sono naufragati. In questo momento storico la dipendenza dalla tecnologica altrui è inevitabile. L’Occidente sta tentando di interrompere le vie commerciali, Mosca trova il modo di aprirne altre.

Da hub di trasbordo in Turchia, negli Emirati Arabi Uniti e in Marocco. Fino – per l’appunto – alla Cina, snodo cruciale per l’inserimento degli F.P.G.A. nella merce poi rivenduta in tutto il mondo.

Gli oligarchi a Hong Kong

Dal 2008 Alexey Chichenev e Mihìkhail Vinogradov, uomini d’affari russi, sono attivi a Hong Kong. Sono proprietari di numerose shell companies. Tra queste le quattro 135 Bonham Strand e l’azienda Saril Overseas, che ha registrato il primo export in direzione della Russia sei mesi dopo l’inizio del conflitto: un lotto da 95mila dollari di F.P.G.A. In totale circa una dozzina di società che operano, a quanto si legge nel loro oggetto sociale, nel settore dello sviluppo immobiliare e nel commercio internazionale. Solo due di queste vendevano già chip a Mosca prima del 2022.

La verità, ovviamente, è diversa. Queste imprese sfruttano una rete complessissima di compagnie offshore. In questa si intersecano società di partecipazione nelle Isole Vergini Britanniche o a Cipro e azionisti russi (chi residente a Vienna, chi a Tel Aviv, chi a Parigi).

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Una resa grafica della complessità della rete dei chip, dalla produzione all’effettiva consegna in Russia. In questo intrecciarsi continuo di percorsi, per le autorità è difficilissimo orientarsi

Rikkon e Midicon, altre due aziende al civico 135 di Bonham Strand, prima di passare in mano a Chichenev e Vinogradov appartenevano rispettivamente a Andrey Kozitsyn e Igor Kudryashkin. Ambedue grandi industriali russi, ex direttori della Ural Mining and Metallurgical Company, legati a Putin e alla criminalità organizzata russa. Dal 2022 a oggi, il Dipartimento del Tesoro americano ha sanzionato 4.200 tra società e persone russe. Tra queste le società di Chichenev e l’oligarca stesso. Ma non basta.

Dentro casa propria

Mosca spesso utilizza uomini d’affari inconsapevoli per aggirare le sanzioni. È il caso di Edward Poberezkin, un pensionato lettone di 67 anni che vive nei sobborghi di Toronto, in Canada. Dieci anni fa un uomo russo gli avrebbe versato una cifra simbolica per registrarsi come ‘agente di servizio’ per Alburton Enterprises, società offshore con sede nelle Isole Vergini. A sua insaputa, la casa di Poberezkin è diventata l’indirizzo designato per i documenti ufficiali dell’impresa, e lui in persona l’unico azionista.

Dall’inizio del 2022, Alburton Enterprises avrebbe spedito oltre 9 milioni di dollari di microchip a Mosca. Poberezkin non ha ricevuto neanche un dollaro, anzi sostiene di non aver ricevuto neanche una comunicazione relativa alla “sua” azienda per otto anni. Non era neanche a conoscenza che la società fosse intestata a lui.

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