Ferisce gli occhi vedere l’acqua tingersi man mano di un intenso colore rosso, quello del sangue di 198 delfini e 436 balene uccise dalle nove spedizioni partite dalle isole dell’arcipelago danese delle Faroe nell’Oceano Atlantico del Nord. Come vuole la tradizione, tra luglio e settembre, le navi baleniere solcano il mare per andare a caccia. Un’usanza – risalente al 1500 – che ogni anno fa strage di questi cetacei. Nella lingua autoctona si chiama grindaràp e attira gli isolani e non solo. Uomini, donne e giovani accorrono sulle spiagge rocciose per assistere al ritorno delle spedizioni e festeggiare il ricco bottino. Una volta catturati gli animali vengono sventrati per tirare fuori le interiora. I più giovani mostrano orgogliosi le mani sporche di sangue, mentre alle loro spalle galleggiano ammassate le carcasse pronte per essere trasportate nei siti di lavorazione.
Se «in duecento anni il 60% di alcune specie di balene si sono estinte, mentre di altre invece il 90%», a dirlo è il presidente di Sea Shepherd Italia Andrea Morello, ancora oggi alcuni Paesi – Giappone, Russia, Corea del Sud, Norvegia e Islanda – continuano a dare la caccia ai grandi cetacei. Non passa perciò inosservata la decisione del Sol Levante di abbandonare la Commissione Internazionale per la caccia alle balene (IWC) istituita nel 1946. Un organismo che riunisce 66 Stati e che è stato più volte accusato di non fare abbastanza contro le lobby delle baleniere, nonostante il divieto imposto dopo la moratoria del 1986.
Proprio il Giappone, dopo aver aderito alla Convenzione Internazionale per la regolamentazione sulla caccia alle balene, prosegue a ucciderle con il pretesto della ricerca scientifica ammessa dalle norme internazionali. A smascherare gli interessi commerciali nipponici l’Australia che nel 2014 presenta una denuncia davanti alla Corte di Giustizia dell’Aja. Caduta nel vuoto anche la diffida dei giudici internazionali, il Giappone si prepara a dare la caccia alle balene nelle acque territoriali e nella zona economica esclusiva a partire da luglio 2019, investendo nelle flotte baleniere. Dietro il provvedimento si celano e s’intrecciano interessi commerciali e politici. Un gruppo di parlamentari liberaldemocratici ha infatti avanzato la proposta di chiudere per sempre con l’Iwc per sostenere la produzione di carne di balena, considerata pregiata, malgrado il netto calo della domanda.
Se, infatti, agli inizi degli anni Sessanta in Giappone se ne consumavano circa 200 mila tonnellate, oggi si è scesi a cinque mila, con un’importante contrazione dei prezzi. «Più della metà dei giapponesi è contraria alla caccia – spiega Andrea Morello – di fatto la carne di balena non si mangia più perché è inquinata dai metalli pesanti presenti nei mari e negli Oceani». «Difendere la loro sopravvivenza significa anche proteggere il genere umano e l’equilibrio marino. Questi grandi cetacei contribuiscono infatti alla produzione del fitoplancton che fornisce ossigeno agli Oceani e all’uomo», aggiunge.
La decisione del Governo nipponico arriva dopo diversi tentativi di influenzare la stessa Commissione, propagandando la necessità di dare la caccia alle balene sia per permettere la sopravvivenza degli aborigeni sia per l’aumento del numero di alcuni esemplari, come le megattere e le minke. Questa rottura è uno dei sintomi della debolezza decisionale e operativa della Iwc, confermate dal fallimento dell’ultima riunione tenutasi a Florianópolis in Brasile. Il no di quattro Stati su 66 ha impedito di raggiungere la maggioranza richiesta dei tre quarti per ampliare le aree marine protette. Una proposta, discussa fin dal 1998, che avrebbe permesso di crearne una nell’Atlantico meridionale, oltre a quelle già esistenti nell’Oceano Indiano e intorno all’Antartide. A votare contro gli Stati che, in trent’anni dalla messa al bando della caccia alle balene per scopi commerciali, hanno commesso sistematiche violazioni della Convenzione internazionale.
Oltre al Giappone, in Europa, Norvegia e Islanda hanno sin da subito contestato la moratoria del 1986, continuando indisturbate a uccidere le balene a fini economici.
Fino a qualche secolo fa dar loro la caccia serviva a ottenere dal grasso l’olio per l’illuminazione o la glicerina impiegata militarmente nella Prima Guerra Mondiale. «Oggi non ha alcun valore economico», dice Andrea Morello che insiste sulla necessità di fermare l’attività prima che raggiunga proporzioni industriali, come è accaduto alla fine del XIX secolo, quando le spedizioni olandesi, americane, basche e norvegesi non risparmiavano neppure l’Antartide.