Da Elephant Man a Twin Peaks: la rivoluzione onirica di David Lynch

A damn fine cup of coffee. Questa frase ha due significati diversi a seconda di chi la legge. È un’espressione di apprezzamento come un’altra per una tazza di caffè. Ma è anche e soprattutto, per chi ancora si chiede chi abbia ucciso Laura Palmer, una formula magica, una porta spazio-temporale per uno degli universi più rivoluzionari della storia della televisione (e non solo): quello di David Lynch.

UN CREATORE DI MONDI

David Lynch (Missoula, 20 gennaio 1946 – Los Angeles, 15 gennaio 2025) è un creatore di mondi ed universi cinematografici che arriva dalla pittura: stava infatti dipingendo un suo quadro quando sente il bisogno impellente che il dipinto… si muova.
Lavora a tre cortometraggi prima di realizzare uno degli esordi cinematografici più straordinari della storia del cinema: Eraserhead. Film fortemente voluto e sentito, Lynch dedica alla sua realizzazione quattro anni, con moltissime difficoltà e pochissimi soldi. Per girarlo utilizza gli scantinati dell’American Film Institute (dove addirittura dormirà).

L’omaggio di un cinema indipendente a Rochester, New York

Il risultato, nonostante gli ostacoli, è comunque sorprendente: Eraserhead è un sogno di cose oscure ed inquietanti, ambientato in un mondo che sembra quello reale ma non lo è. Una sorta di mise en abyme dell’incubo. Un debutto con cui Lynch si presenta al pubblico come un regista fuori dal comune, del quale bisogna accettare l’idea – visionaria, conturbante e personalissima – di cinema; che è quasi tattile, materico, corporale, che chiede allo spettatore di usare anche altri sensi. Motivo per cui Eraserhead inizialmente non incontrerà il favore della critica (la rivista Variety lo demolirà), bensì l’intuizione di un produttore, che ne capisce il valore e decide di programmarne la proiezione non nelle comuni sale cinematografiche ma in quelle dedicate alle sessioni di midnight movies, circuito in cui il film trova finalmente una seconda vita, rimanendo in programmazione nelle sale newyorkesi per quasi un anno.
Il resto è storia.

DA ELEPHANT MAN A TWIN PEAKS

Da Elephant Man (film che riassume la vicenda di John Marrick e che varrà al regista le candidature come miglior film e miglior regista) a Velluto Blu (prodotto a budget così basso da portare Lynch a ridursi lo stipendio, ma che lo collocherà nell’empireo delle maestrie diverse, per la sua capacità di creare un universo filmico non assimilabile ad altri registi); fino a Cuore Selvaggio, palma d’oro a Cannes l’anno in cui in giuria c’è Bernardo Bertolucci.

E poi, ovviamente, Twin Peaks. Serie che nel 1989 sconvolge completamente l’universo televisivo perché per prima ne scompagina le norme. Twin Peaks mette insieme tutto: situation comedy, mistery, thriller, horror, mescolandoli nel medesimo prodotto finale: una cosa decisamente inusuale per l’epoca.

L’agente dell’FBI Dale Cooper arriva nella città di Twin Peaks e nella narrazione della serie, circa 35 minuti dopo l’inizio della puntata pilota

La trama non è ignota: in una piccola cittadina in cui tutto sembra idilliaco si nasconde del marciume, del putrido. Come in via d’imputridimento è infatti il volto gonfio e livido di Laura Palmer, l’adolescente il cui cadavere viene ritrovato in un lago nella prima puntata della serie. Sul suo omicidio indagherà l’ormai iconico detective Cooper, forse l’unico investigatore dell’FBI capace di godersi una dannatamente buona tazza di caffè. Ma la morte della reginetta di bellezza più popolare del liceo non è che il mcguffin (nel linguaggio cinematografico, l’espediente narrativo che serve a mettere in moto la storia) di cui Lynch e Mark Frost si servono per dare inizio ad un viaggio televisivo a cui mai gli spettatori hanno partecipato. In un’intelaiatura di terrore imminente, Lynch gira e mostra immagini non consuete al piccolo schermo, come il buio, che è una costante; oppure le inquadrature in campi lunghissimi. Tutte cose che la televisione tende ad escludere.

L’attrice Sherilyn Fenn (a sinistra) e David Lynch (a destra) sul set della serie tv Twin

Non è che Twin Peaks porta il cinema in televisione: cambia proprio il modo di fare serie televisive.
« L’esperienza sensoriale completa di Twin Peaks – immagini, suoni, musica e personaggi completamente strani ma assolutamente avvincenti – è stata diversa da qualsiasi altra cosa abbia mai visto. L’ambiguità intenzionale ha fatto sì che il mio cervello continuasse a girare, beh, per sempre », dirà lo sceneggiatore de I Soprano, David Chase. « Gran parte del cinema è trasmissione di informazioni, ma Twin Peaks ha creato un’atmosfera con immagini che non sempre avevano senso: Killer BOB appare dal nulla, ti fa drizzare i capelli, poi scompare e ti chiedi se sia reale », è la testimonianza di Carlton Cuse, sceneggiatore e produttore di serie come Lost e Bates Motel.
Chiedersi cosa sia reale e cosa no; chi sia il buono e chi sia il buono con dentro il mostruoso; muoversi nel buio che non è mai stato così ipnotico ed elegante (e qui sta forse il confine tra sogno ed incubo). Forse è proprio questa l’eredità di David Lynch: nessuna risposta e moltissime domande. E no, la più importante non è chi ha ucciso Laura Palmer. (SDF)

Dal romantico al mostruoso: la quintessenza del cinema lynchano

Se c’è qualcuno a cui si può accostare il termine di «visionario», questi è sicuramente David Lynch. La versatilità, l’eleganza con cui rappresentava temi come l’amore, la morte, il macabro, non smettendo mai di osare, rimane ineguagliabile. Ci ha raccontato storie di emarginati, creature mostruose con un cuore d’oro, proprio come nel suo Elephant Man (1980). Il film prodotto da Mel Brooks, regista di Frankenstein Junior, è un’accusa feroce contro una società che, incapace di tollerare la diversità, trasforma l’altro in un mostro. La figura di Merrick, con la sua deformità fisica, diventa il capro espiatorio di una collettività che proietta su di lui le proprie paure e insicurezze. Lo spettatore è invitato a riflettere sulla propria reazione di fronte al diverso, e a interrogarsi sui meccanismi che portano alla stigmatizzazione e all’emarginazione.

David Lynch durante le riprese di Elephant Man

Dall’horror sui generis a Cuore selvaggio, una storia crime che si fonde alla fuga romantica ispirata un po’ alla letteratura giovanile americana e alla fumettistica moderna. Nicolas Cage e Laura Dern protagonisti indimenticabili, un successo conclamato. Se Velluto Blu aveva sollevato il velo su un sottobosco oscuro della società americana, questo film spinge ancora più in là, portando alla luce le contraddizioni più profonde e inquietanti.

Il dramma onirico con Eraserhead e il caso Dune

Passa alla storia il mito del feto di vitello imbalsamato (mai confermato dal regista) di Eraserhead – La mente che cancella. Un perfetto ritratto delle paure e delle angosce associate alla paternità. Eraserhead è un’esperienza visiva intensa. Il bianco e nero è una scelta stilistica audace che eleva il film a un livello di raffinatezza inusuale. Le immagini, talvolta disturbanti, sono realizzate con effetti speciali rudimentali ma efficaci, sottolineando la volontà del film di provocare e non di accontentare.

Eraserhead, il debutto di David Lynch del 1977

Nell’1984 Arrakis arriva sul grande schermo, è la volta di Dune. Un film da otto miliardi con la produzione di Raffaella De Laurentiis, che commenta: «Realizzare il film più avanzato di sempre in un paese senza tecnologia». La scelta di girare in Messico per risparmiare, con il set dislocato in otto teatri di posa dei Churubusco Studios. I blackout, la dogana che bloccava le provviste per le 900 persone che componevano la troupe, Lynch indaffarato a gestire ventimila comparse e 53 ruoli con battute. Un montaggio di tre ore che lo studio ha rigirato. Un flop di cui Lynch non ha più voluto parlare, ma senza il quale non avremmo assistito a tutto il suo sèguito cinematografico come lo conosciamo oggi. (GS)

Serena Del Fiore

Milano, figlia dei 90s e di tanta letteratura. Scrivo (e parlo) di arte, cultura e spettacolo. Quando sono sull'orlo di un esaurimento nervoso penso sempre al posto mio cosa farebbe Woody Allen. Mi pento tutte le volte. Laureata in Comunicazione, Media e Pubblicità con Gianni Canova, nel 2019 sono stata compagna di palco di Beppe Severgnini nello spettacolo teatrale "Diario sentimentale di un giornalista", unendo due grandi passioni: viaggiare e raccontare storie. Ho vissuto a Parigi e New York.

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