Il 9 maggio 1978 la mafia uccideva Giuseppe, detto Peppino, Impastato, giornalista e attivista siciliano che, a Cinisi, un paese in provincia di Palermo, aveva fondato Radio Aut. Un’emittente libera e totalmente autofinanziata in cui sbeffeggiava e denunciava crimini e attività di Cosa Nostra. È stato ucciso a poco più di trent’anni di età e, dopo un lunghissimo iter giudiziario durato decenni, sono stati condannati il boss Gaetano Badalamenti e il suo vice Vito Palazzolo. In questi 41 anni trascorsi dalla sua morte Peppino è diventato uno dei simboli della lotta contro la mafia. La sua figura è stata infatti espressa alla perfezione nel film “I cento passi” e in suo onore sono nate diverse associazioni e iniziative per la legalità.
Fin da giovanissimo Peppino avviò un’intensa attività politica e culturale incentrata sull’antimafia. Lui stesso nacque in una famiglia mafiosa, il cognato del padre era il boss Cesare Manzella. All’età di 15 anni decise di rompere i rapporti con il genitore e venne quindi cacciato di casa. A 17 anni, nel 1965, fondò il giornalino “L’idea socialista” e aderì al Partito Socialista Italia di Unità Proletaria. Ben presto si trovò in prima linea nelle battaglie a favore dei disoccupati e dei contadini nel territorio di Cinisi. Dopo aver costituito il gruppo “Musica e cultura”, che organizzava cineforum, dibattiti e concerti, Impastato nel 1977 fondò Radio Aut.
Peppino utilizzava questo mezzo per attaccare e denunciare i potenti mafiosi del paese in cui viveva e quelli di Terrasini con coraggio e determinazione, attività che lo portò a non essere ben visto dalla popolazione. L’obiettivo principale delle sue denunce irriverenti era in particolare il boss Gaetano Badalamenti, da lui ribattezzato “Tano Seduto”. Il programma più seguito era “Onda pazza a Mafiopoli”, trasmissione satirica che andava in onda il venerdì sera. Qui il ragazzo, insieme ad altri tre colleghi, sbeffeggiava mafiosi e politici. Radio Aut cessò definitivamente le sue trasmissioni qualche mese dopo l’omicidio di Impastato, avvenuto nelle stesse ore in cui veniva ritrovato il corpo di Aldo Moro in via Caetani a Roma.
Nel 1978 si candidò nelle liste di Democrazia Proletaria alle elezioni locali, ma dopo numerose minacce, a pochi giorni dal voto, venne ucciso nella notte tra l’8 e il 9 maggio. Il suo corpo venne posizionato sui binari della ferrovia Trapani-Palermo e fatto saltare con una carica di tritolo allo scopo di inscenare un suicidio soprattutto per screditarne l’immagine pubblica. Alle elezioni di Cinisi molti elettori votarono comunque il suo nome e fu così eletto, seppur simbolicamente, come consigliere comunale.
Il delitto venne immediatamente etichettato da parte degli investigatori come suicidio.
Solo l’impegno del fratello Giovanni e della madre Felicia permisero di scoprire la vera natura della morte di Peppino, cioè un omicidio di mafia per volere del boss Badalamenti. Dopo aver rotto pubblicamente con i parenti mafiosi, insieme ai compagni del Centro siciliano di documentazione, i due riuscirono a raccogliere elementi sufficienti per permettere la riapertura dell’inchiesta giudiziaria. Fu il giudice Rocco Chinnici a ribaltare completamente il caso. Anche lui però fu ucciso nel 1983. Il suo successore Antonino Caponnetto, Consigliere Istruttore, firmò una sentenza che riconosceva la vera natura dei fatti, attribuendolo a ignoti.
Dopo una seconda archiviazione, avvenuta nel 1992 per volere del Tribunale di Palermo, le nuove dichiarazioni del pentito Salvatore Palazzolo permisero di riaprire nuovamente l’inchiesta nel 1996. Fu proprio lui a indicare Francesco Di Trapani e Nino Badalamenti come esecutori materiali del delitto, ma entrambi morti al tempo del procedimento, e Gaetano Badalamenti e Vito Palazzolo come i mandanti dell’omicidio. Seguì un lungo processo che si concluse nel 2001 con la condanna all’ergastolo – con rito ordinario – per il primo e a 30 anni – con rito abbreviato – per il secondo.
Ancora oscuro è rimasto il filone secondo cui sarebbero stati coinvolti nell’omicidio anche alcuni rappresentanti delle istituzioni. Nel settembre 2018 è stata prescritta la posizione del generale dei Carabinieri Antonio Subranni, che nel 1978 svolse le indagini, ritenuto il principale responsabile del depistaggio e quindi accusato di favoreggiamento insieme a tre sottufficiali che rispondevano di concorso in falso.
Peppino Impastato ha insegnato a diverse generazioni l’importanza di non arrendersi di fronte alle difficoltà, qualunque sia il proprio obiettivo. Era un cittadino libero e ribelle. Più di ogni altro al suo tempo aveva capito il valore della comunicazione e della giusta informazione al popolo sulla violenza delle mafie. Celebre è la sua affermazione «La mafia è una montagna di merda». Ricordare Peppino Impastato, oggi, vuol dire incoraggiare alla libertà.