
Martino Cervo è il quinto ospite di Tomalet, la newsletter di MasterX. Allievo del biennio 2003-2005 del Master in Giornalismo IULM, ha svolto il primo stage a Libero per poi venire assunto ancora prima di terminare il percorso accademico. Nel quotidiano fondato da Vittorio Feltri ha scalato rapidamente le gerarchie, diventando caporedattore centrale, per poi assumere la direzione de Il Cittadino di Monza e Brianza nel 2014. Dal 2017 è vicedirettore de La Verità, il quotidiano fondato e diretto da Maurizio Belpietro.
Quando hai capito che il giornalismo sarebbe stato il tuo mestiere?
«Ho sempre avuto una predisposizione, ma piuttosto vaga. Era più che altro un’inclinazione da lettore appassionato. Probabilmente il punto di svolta è arrivato durante il mio primo stage a Libero. In quel periodo, il giornale stava portando avanti una campagna per sostenere la nomina di Oriana Fallaci a senatrice a vita: ogni giorno bisognava trovare interviste che rafforzassero la causa. Un giorno toccò a me. Non riuscivo a trovare nessuno. Andai dal direttore responsabile, Alessandro Sallusti, e gli dissi che non mi rispondevano. E lui, senza tanti giri di parole, mi disse: “Arrangiati e trova qualcuno”. In quel momento mi sono detto: se non riesco a fare una cosa del genere, forse questo mestiere non fa per me. E allora decisi di provarci davvero»
Cosa ti ha lasciato il Master?
«Più che una serie di insegnamenti — ovviamente tutti importantissimi — credo che ciò che rimanga di più siano gli incontri. E per me uno su tutti: Angelo Agostini, l’allora coordinatore. Ho cercato di mimare il suo sguardo, il suo approccio giornalistico. Mi è capitato spesso di chiedermi cosa avrebbe fatto lui in una determinata circostanza. Questa è l’eredità più preziosa: vedere gente di valore in azione, che ti racconta cosa ha fatto, come si muove, quali sono le cose più importanti».
C’è un episodio del periodo trascorso al master che ricordi ancora?
«Sì, mi ricordo che una volta mi trovai di fronte a una notizia che avrebbe potuto creare qualche problema. Ecco, è stata la prima volta che ho provato quel gusto lì. Quello di contribuire a rivelare delle cose che magari qualcun altro non avrebbe piacere di rivelare».
Una cosa che poi hai fatto anche con il tuo libro su Obama (Obama- L’irresistibile ascesa di un’illusione, Rubbettino, 2010).
«Quel libro ha una storia divertente. Non sono un grande esperto di Stati Uniti, ma io e Mattia Ferraresi — amico e collega che ha avuto una bellissima carriera — avevamo deciso di provare a spiegare come mai Obama avesse citato Gioacchino da Fiore durante la sua campagna elettorale. Si tratta di un profilo non proprio americano, e anche una figura problematica nella Chiesa. Ma una volta partiti, ci siamo resi conto che quella citazione non c’era mai stata. Era una bufala, messa in piedi da qualcuno che voleva far rivivere il mito del teologo. Quindi abbiamo impostato il lavoro smentendo la notizia. Credo sia un ottimo esempio di come funziona il nostro lavoro: si parte indagando una pista, ma poi si scopre che, magari, le piste da percorrere sono altre».
Tornando al Master. Com’è stato il passaggio dalla scuola al mondo del lavoro?
«Io ho fatto solamente il primo stage a Libero nell’estate del 2004. Alla fine del secondo anno ero già stato assunto. Sono stato favorito da un domino aperto dal passaggio di Mattia Feltri a La Stampa. La direzione decise di prendere me che, nel frattempo, avevo continuato a collaborare. È stata anche un’assunzione anomala: di solito il bacino per i giovani è la cronaca di Milano, io sono partito dalla redazione politica».
Da lì in poi è stata una scalata rapida.
«Sì, a 25 anni sono stato incaricato, sotto la guida di Alessandro Gnocchi, di rifondare le pagine culturali da zero. Un’esperienza incredibile, soprattutto se vissuta a quell’età. Poi sono diventato caposervizio politico, ho lavorato nella redazione romana, e nel 2010 sono tornato a Milano come caporedattore centrale. Il direttore era già Belpietro».
Hai diretto anche Il Cittadino di Monza e Brianza. Com’è stato il passaggio al ruolo di direttore?
«È stato completamente un altro mestiere. Mi sono trovato a essere direttore grazie a circostanze piuttosto impreviste e sicuramente non calcolate. La parte giornalistica pura, in questo ruolo, si riduce: è un lavoro soprattutto con aspetti manageriali, di relazione, istituzionali ed economici. Credo siano stati decisivi nel farmi imparare delle cose che non sapevo e che, ovviamente, devi imparare mentre le fai. Anche abbastanza in fretta. Sono stati due anni e mezzo di grandissima soddisfazione».
Come cambia il lavoro nell’ambito del giornalismo locale?
«La grande lezione che spero di aver imparato è che lì ti devi occupare di cose che il tuo lettore conosce benissimo. Se parli di esteri, per esempio, ovviamente dirai cose corrette, ma su cui anche il lettore più esperto potrebbe non avere una verifica immediata. Quando invece racconti cosa ha fatto un Consiglio Comunale, non puoi essere sciatto o impreciso. Questa è stata la lezione: serietà, pulizia e chiarezza».
Un ambito completamente diverso da Libero e La Verità, dove i lettori vogliono una chiave di lettura per leggere i fatti.
«Io faccio sempre questo gioco quando mi trovo agli eventi. Chiedo al pubblico qual è l’ultima volta che hanno saputo una notizia da un giornale di carta. Raramente ottengo una risposta. Ormai abbiamo tutti una dieta mediatica che ci permette di avere subito le notizie. E Feltri ha avuto l’intuizione che, in un Paese dove il lettorato andava a ridursi, poteva esserci spazio per segmenti di lettori che condividessero con il giornale una visione del mondo — ovviamente dichiarata. E Belpietro ha portato avanti, con le sue specificità, questa filosofia. Una cronaca neutrale al 100% forse non esiste: quindi è più onesto dichiarare un punto di vista, che viene poi apprezzato dai lettori che cercano una chiave di lettura sul mondo, oltre a inchieste e approfondimenti».
Una cosa che hai imparato da Feltri.
«La carica di ossessiva semplificazione, senza mai diventare banali. Su questo, indipendentemente dalle idee che uno possa avere, credo che il talento di Feltri sia indiscutibile e oggettivo. Partecipare da ragazzo alle riunioni di redazione con lui era una lezione continua. Ricordo che, se una proposta durava più di 30 secondi, era un problema: se non permetteva quel livello di sintesi, la traccia non era abbastanza chiara e veniva scartata. Una livella brutale, ma molto istruttiva».
E da Belpietro?
«La forza e la determinazione. Ha creato un nuovo giornale in un momento della sua carriera in cui era già un giornalista molto affermato. Si è gettato a capofitto nella costruzione di un’azienda. È un esempio per tutti. Non è un uomo di molte parole, ma tra le poche che ci ha detto — o almeno che ha detto a me, quando mi ha proposto di far parte di questa avventura — c’è stata l’indicazione, pur rivendicando quella appartenenza culturale di cui parlavamo poco fa, di stare molto attenti a non identificare mai la testata con un partito. Perché, soprattutto in una fase in cui dovevi dire chi eri al mondo e forgiare il carattere della tua identità giornalistica, era un rischio troppo grande. Guardando all’ambito del centro-destra, in cui ci sono state montagne russe sul peso specifico dei partiti, è stata una regola d’oro per il successo».
Cosa c’è nel futuro di Martino Cervo?
«Crescere e impegnarmi in sempre più progetti, come ho fatto fino a oggi: che fossero libri, articoli, ruoli di direzione oppure podcast. Adesso sto portando avanti il podcast Dizionario Testardo per La Verità. Quindi questo, desidero continuare a poter fare cose, e farle al meglio».
Cosa diresti al Martino del passato, studente del Master?
«Gli direi che ne vale la pena. Ne vale la pena nonostante lo stato del mercato. Anzi, soprattutto per lo stato del mercato. Perché tutte le difficoltà aziendali, economiche, editoriali sono quelle che affinano e costringono le aziende a selezionare il meglio, e a lavorare per il meglio. Gli direi che essere giornalista è un lavoro per chi ha passione, che ripaga tutto il dispendio di energie e di tempo. Non è certo un lavoro in cui si timbra il cartellino e si torna a casa».