Sono passati 13 anni da quando Olindo Romano e Rosa Bazzi sono stati condannati per l’omicidio di Raffaella Castagna e del figlio Youssef, della madre della donna Paola Galli e della vicina Valeria Cherubini. Colpi di spranghe e coltellate, che hanno risparmiato solo Mario Frigerio, marito di quest’ultima. L’uomo, nonostante il fendente alla gola, è riuscito a evitare il dissanguamento grazie a una malformazione alla carotide ed è diventato il primo – e unico -testimone della strage. Ora, a distanza di 17 anni dal delitto, il sì dei giudici all’istanza di ricorso potrebbe cambiare tutto.
Dalle udienze preliminari al nuovo ricorso
Era l’8 gennaio 2007 quando le forze dell’ordine fermano Olindo e Rosa. Un lungo interrogatorio, durante il quale i coniugi ribadirono la propria innocenza. Due giorni dopo la coppia si dichiarò colpevole. La descrizione precisa delle armi, delle ferite e della posizione dei corpi portò i magistrati a credere alla confessione. Il 10 ottobre successivo Olindo e Rosa comparvero di fronte al Gup, ritrattarono le precedenti dichiarazioni e vennero rinviati a giudizio.
Nonostante la prima udienze si tenne a fine gennaio 2008, la sentenza di primo grado dalla Corte d’assise arrivò solo il 26 novembre. La coppia ricevette una condanna all’ergastolo con isolamento diurno per 3 anni e al risarcimento di mezzo milione di euro ai Frigerio, 60 mila euro al marito di Raffaella e 20 mila ai genitori del tunisino. Ad aprile 2010 la Corte d’assise d’appello confermò l’ergastolo. Due anni più tardi la coppia intentò un ricorso, dichiarato però non ammissibile per assoluto difetto di giurisdizione. Sarà solo nel 2017 che la Cassazione ammetterà la riesamina di sette elementi di prova. Nel luglio 2018 un’ordinanza della Corte dispose la distruzione dei reperti non analizzati e di alcuni di quelli in custodia nell’Ufficio corpi di reato del Tribunale di Como.
La possibile riapertura dei fascicoli
Nell’aprile 2023 il Sostituto Procuratore di Milano Cuno Tarfusser presentò una nuova richiesta di ricorso. Tale richiesta costò a Tarfusser un procedimento disciplinare, in quanto solo l’avvocato generale e il Procuratore Generale potevano presentare quell’istanza. Ora, a gennaio 2024, una possibile svolta. Il 1° marzo ci sarà l’udienza per stabilire se accogliere le nuove prove, il ricorso e riaprire ufficialmente il caso.
Per la difesa sembra decisivo un testimone che all’epoca non fu ascoltato: un amico di Azuz Marzouk, che aveva parlato di una faida con un gruppo rivale di marocchini. Importanti anche le dichiarazioni di un ex carabiniere, che afferma ci siano parti mancanti delle intercettazioni che avrebbero portato a una ricostruzione più in linea con le affermazioni dei coniugi.
Chi è Cuno Tarfusser
Dopo aver superato il concorso di magistratura nel 1984, diventa Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bolzano. Nel 2009 viene eletto Giudice della Corte Penale Internazionale e si insedia nella sede dell’Aja.
Assegnato alla Divisione Preliminare, facendo parte di entrambe le Camere preliminari e presidiandone una, si occupa di tutti i casi internazionali nel decennio 2009-2019. In particolare, tra gli altri, firma i mandati di cattura del presidente del Sudan Al Bashir per genocidio, di Muammar Gaddafi, del figlio e del capo dei servizi libici per crimini contro l’umanità. Dal 2019 è rientrato nel ruolo di Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di appello di Milano.
La “prova madre” delle falle processuali
“Colpevoli contro ogni ragionevole dubbio”, ma invece i dubbi riguardo la colpevolezza dei coniugi di Erba sono molti. A porsi in prima linea nel ricorso del caso il Tarfusser e i legali di Rosa e Olindo. Alla base ci sarebbero nuove prove basate sui progressi scientifici e tecnologici e nuovi testimoni che potrebbero ribaltare la sentenza. Alla luce della riapertura si stanno scandagliando tutte le possibili falle giudiziarie di questo caso.
La prova madre, una macchia di sangue di Valeria Cherubini trovata sul battitacco dell’auto di Olindo, fu repertata male secondo Tarfusser.
Io sostengo che di questa macchia di sangue non c’è traccia negli atti. Nell’immagine non si vede. Manca quella che in inglese si chiama chain of custody. Non si sa come quel reperto arrivi al consulente tecnico, ossia non c’è certezza della provenienza. Non trovo il percorso dal momento della repertazione all’esito dell’esame scientifico che attribuisce la traccia ematica a una delle vittime. Bisogna fare un atto di fede per dire che era nell’auto e la prova non può consistere nell’atto di fede. L’altra anomalia è che la macchia viene trovata alcune settimane dopo, gli imputati avevano continuato a usare l’auto, sarebbe stato normale che la eliminassero.
Le altre incongruenze
Secondo il magistrato della procura di Milano un elemento fondamentale è il fatto che le indagini non abbiano rilevato tracce ematiche delle vittime sui vestiti di Rosa e Olindo e nessuna traccia dei due sul luogo del delitto.
In sede di processo, poi, fu fondamentale la testimonianza dell’unico sopravvissuto, ascoltato dai carabinieri ancora nel letto di ospedale. Non accusò i coniugi, bensì un uomo con carnagione olivastra, capelli e occhi scuri e una mascella grossa, salvo poi cambiare opinione in aula dopo aver visto Olindo. Secondo una serie di neurologi interpellati è impossibile passare dal ricordo di uno sconosciuto a quello di un volto familiare. Zoppicanti anche le confessioni dei due coniugi che, secondo Tarfusser, non sarebbero del tutto sincere. Si tratterebbe infatti di “dichiarazioni autoaccusatorie da considerarsi false confessioni acquiescenti” fatte con la speranza di ottenere qualche beneficio, per poi invece professarsi innocenti.
A cura di Elena Betti e Elena Cecchetto