Sei arresti di tutela cautelare in carcere e due società sequestrate. Sono queste le operazioni svolte all’alba di lunedì 13 maggio dai finanzieri del gruppo di polizia economico-finanziario di Palermo. La mafia ha oltrepassando i confini siciliani per dettare legge a Milano. Questa volta però niente che abbia a che vedere con stupefacenti o armi, bensì attività illecite nel settore della produzione e distribuzione di caffè. Tra i sei arrestati sono finiti in manette anche Rita Fontana, figlia trentenne dello storico boss palermitano Stefano Fontana, deceduto nel 2012, e Giovanni Fontana, 41enne, uno dei fratelli.
Le due società palermitane dove la mafia sicialiana ha investito il proprio denaro sono la ‘Café Moka special di Pensavecchia Gaetano e c. sns” e la “Masai caffè srl”, ambedue con sede e stabilimenti a Palermo. Le sei persone arrestate sono state accusate di aver gestito gli investimenti della famiglia mafiosa Fontana del clan Acquasanta Arenella di Palermo.
L’operazione ha coinvolto un centinaio di militari del Nucleo Pef di Palermo, con il supporto dello Scico di Roma, del Nucleo Pef di Milano e dei Gruppi di Milano e Palermo. Oltre a loro, sono intervenute anche le unità cinofile e un elicottero della Sezione Aerea di Palermo. L’indagine è stata delegata dalla Direzione Distrettuale Antimafia (dda) della Procura della Repubblica di Palermo.
I fratelli Fontana con altri complici avrebbero stabilito nel cuore della città della Madonnina una sorta di centrale degli investimenti. Di fatto, l’indagine della dda ha scoperto una vera e propria organizzazione finalizzata a gestire i capitali della famiglia dell’Acquasanta-Arenella dei Fontana i cui vertici si erano trasferiti a Milano, una volta usciti dal carcere.
Il giudice per le indagini preliminari (gip) di Palermo ha riconosciuto «l’oggettiva gravità dei fatti, maturati in un contesto di asservimento alle logiche dell’organizzazione mafiosa e di infiltrazione criminale nel tessuto produttivo e imprenditoriale del territorio: scopo ultimo di tale illecita penetrazione è stato quello di salvaguardare e rafforzare gli interessi economici di «Cosa nostra» attraverso il radicale stravolgimento dei principi di libero mercato e di accesso al credito grazie a ingenti immissioni di capitali sporchi». Soldi accumulati in modo illecito e poi investiti «facendo ricorso a soggetti che, non necessariamente estranei e appartenenti a Cosa nostra, ma più che meri prestanome, si pongono quali imprenditori – spesso anche dotati di capitale proprio – disponibili a scendere a patti con i gruppi criminali operanti sul territorio».