«It’s over»
Uno sguardo alla telecamera, la sfrontatezza di chi è consapevole di essere l’attrazione della serata, un palazzo dello sport in visibilio.
Siamo alla Oracle Arena, in California. È il 12 febbraio del 2000, l’impianto di Oakland è gremito per l’all star saturday, l’evento che da tradizione precede la partita delle stelle. Tracy McGrady fa rimbalzare il pallone sul parquet, Vince Carter lo raccoglie al volo, lo fa passare in mezzo alle gambe e schiaccia in una sinfonia di pura potenza ed eleganza.
È il delirio. Si alzano tutti in piedi con le mani tra i capelli, perfino Tim Duncan abbandona per un momento la sua classica espressione vacua. Isiah Thomas alza i pugni al cielo, Shaquille O’Neal con la videocamera in mano sembra un bimbo al parco giochi. In quel momento, sotto i loro occhi, Vince Carter sta riscrivendo la storia dello slam dunk contest.
Oggi, a vent’anni di distanza, quando si ripensa a quell’edizione dell’All star game si pensa a Vince Carter. Vinsanity, Half man-half amazing, Air Canada, comunque lo si chiamasse quel ragazzo della Florida aveva esteso il concetto di schiacciata a un livello mai visto prima. Con il ferro del canestro aveva un rapporto stretto, a ogni pre-partita si aggrappava alla retina, si tirava su con le braccia e gli dava un bacio: era diventato un suo rituale all’Air Canada Center, dove i Raptors affrontavano le sfide casalinghe.
Vince Carter frequentò per tre anni l’università di North Carolina, la stessa in cui aveva militato Michael Jordan. Una coincidenza che non lo avrebbe esentato da paragoni scomodi, specie nella prima parte della sua carriera. Nel 1998, appena ventunenne, si dichiarò eleggibile per l’nba draft. I Golden State Warriors lo scelsero con la quinta chiamata, ma ne cedettero i diritti a Toronto in cambio di Antawn Jamison, altro prodotto in uscita dalla fucina dei tar heels.
I Raptors esistevano da soli tre anni. Nel 1995 la nba aveva deciso di estendere i propri confini al Canada con due nuove franchigie, una con sede a Vancouver e l’altra, appunto, a Toronto. Ai tempi dilagava la mania per Jurassic Park, il film di Steven Spielberg che nel 1993 aveva sbancato i botteghini. Quando i fan vennero chiamati a votare il nome della squadra, la preferenza si rivelò quasi plebiscitaria: erano nati i Toronto Raptors.
Storicamente il panorama sportivo canadese vede l’hockey su ghiaccio al primo posto. In quel periodo a Toronto mancava una vera tradizione cestistica e, come se non bastasse, la squadra aveva vissuto delle prime stagioni nba da incubo. L’annata peggiore fu quella che precedette l’arrivo di Vinsanity: un record da minimi storici, 16 vittorie a fronte di 66 sconfitte.
Vince Carter con le sue evoluzioni sopra il ferro e la sua personalità esplosiva riuscì a mettere Toronto sulla mappa del basket. Il suo approdo nel grande nord oggi viene chiamato The Carter effect, un impatto rivoluzionario ben spiegato nell’omonimo documentario prodotto da Netflix. La città ne beneficiò e la squadra iniziò a girare per il verso giusto, nonostante la ferita aperta dall’addio di Tracy McGrady, cugino in terzo grado di Vince. T-Mac, ormai vicino alla definitiva esplosione, si accasò a Orlando mosso dal bisogno di recitare da attore protagonista. Impossibile sapere cosa sarebbe successo se quei due avessero continuato a giocare insieme, lo stesso Carter dovrà esserselo domandato chissà quante volte.
Con la maglia dei Toronto Raptors Vince Carter si è aggiudicato il titolo di Rookie of the year, poco alla volta è riuscito a levarsi quell’etichetta di semplice mago delle schiacciate che si è sempre sentito stretta addosso. In più di un’occasione è stato capace di trascinare la squadra ai playoff, fino a un passo dalle finali di conference, sfumate nel 2001 alla fine di una lunga serie contro i Philadelphia 76ers di Allen Iverson. Sulla sirena di gara 7 Vince ebbe tra le mani il tiro della vittoria, ma i sogni di gloria si infransero sul ferro di quello che all’epoca si chiamava First union center.
Nel 2004 i Raptors mancarono la qualificazione alla post season. Il primo a pagarne le conseguenze fu il General Manager Glen Grunwald, licenziato insieme all’intero staff tecnico. Carter finì all’interno di una trade che lo costrinse a trasferire i suoi talenti nel New Jersey, dove per cinque stagioni indossò la maglia dei Nets al fianco di Jason Kidd. Poi le esperienze a Orlando, Phoenix, Dallas, Memphis e Sacramento, un lungo girovagare che ha accompagnato l’autunno della sua carriera. Carter, nel tempo, si è lentamente adattato al ruolo di comprimario, agendo da specialista nel tiro da tre punti in uscita dalla panchina.
Nel 2018, a 41 anni, l’approdo agli Atlanta Hawks, la sua tappa finale. L’annata 2019/2020 è stata l’ultima della sua carriera, interrotta prematuramente dall’emergenza Covid-19. Nel piano studiato dalla lega per concludere la stagione a World Disney non c’è stato spazio per i suoi Hawks, tra le otto squadre escluse per via di un record troppo basso.
Un viaggio durato oltre vent’anni quello di Vince Carter. Tante cartoline da incorniciare, alcune indelebili, come il celebre volo sulla testa del centro francese Frédéric Weis nella finale olimpica del 2000. Una schiacciata con tanto di urlo liberatorio rimasta nella storia del Dream team e della rassegna a cinque cerchi.
«It’s over» gridava alla Oracle Arena nel cuore di una gara delle schiacciate dominata dall’inizio alla fine. Stavolta è veramente finita Vince, ma come si usa dire in questi casi dal tuo lato dell’oceano, Thank you for the memories.