L’emergenza sanitaria del coronavirus che stiamo vivendo ci ha dimostrato una cosa: che le persone hanno bisogno di professionisti che diano informazioni veloci e a portata di clic, ma allo stesso tempo corrette e affidabili. Questo per non scatenare caos e paure inutili. Forse la vera domanda è se esistano ancora cronisti scrupolosi, appassionati e curiosi, come lo era Walter Tobagi, in grado di rispondere a questo bisogno. E soprattutto se nei giornali, in perenne crisi economica, ci siano ancora le condizioni e gli spazi per loro. I mezzi a nostra disposizione sono cambiati, è vero. Ma abbiamo ancora il telefono (che rispetto agli anni 70 è un oggetto portatile e più comodo) e possediamo anche l’«enorme taccuino pieno di nomi e numeri di telefono di cui Walter andava fiero e che noi gli invidiavamo», citato nel 2005 in un articolo di Pierluigi Magnaschi. Anche quest’utilissimo strumento si è evoluto, diventando la nostra rubrica digitale. Possediamo tutte le risorse materiali che aveva Tobagi, anzi ne abbiamo anche di nuove e migliori che ci permettono l’interconnessione con tutto il mondo. Sta al giornalista saperle sfruttare al meglio, indagando fino in fondo e facendo le dovute ricerche e verifiche, senza accontentarsi della prima risposta che trova in rete e senza il timore di ribaltare verità preconfezionate o di sfidare il potere. E credo che in questo caso un ottimo esempio di come il giornalismo d’inchiesta possa essere efficace ci arrivi da Report della Rai. Questa trasmissione televisiva, prima condotta da Milena Gabanelli e ora da Sigfrido Ranucci, è diventata un punto di riferimento nel giornalismo investigativo. Come lo sono stati nel tempo i racconti di guerra di Ettore Mo sul Corriere della Sera o le cronache da infiltrato di Fabrizio Gatti sull’Espresso. Sulla scrupolosità che impiegava Tobagi nel ricercare la verità e sul suo metodo, ha insistito di nuovo Magnaschi in un intervento per il 25esimo anniversario della morte del grande inviato del Corriere della Sera: «In quegli anni sanguinari e sanguinosi un giornalista di punta come Walter Tobagi non poteva che scrivere di terrorismo, delle Brigate Rosse, di Prima Linea (…). Tobagi voleva capire le ragioni vere e profonde di quell’imbarbarimento, di quella follia. Lui, figlio di povera gente, andava, per capire, ai cancelli delle fabbriche, nelle riunioni sindacali. Parlava con i procuratori, si informava dagli investigatori, decriptava i proclami terroristici». Ecco, il punto è proprio questo: lui andava sul campo, trovava le notizie, le verificava e poi offriva ai lettori un’interpretazione della realtà. Tutto ciò dà un valore aggiunto al mestiere. Anzi, è il Valore del mestiere. Oggi invece troppi giornalisti lavorano dall’ufficio e c’è una tendenza eccessiva a ricorrere al “copia e incolla”. Durante gli Anni di piombo Tobagi capì cosa stava succedendo perché era un uomo di cultura, attento, curioso, un buon osservatore capace di decifrare il mondo che lo circondava. Ma, soprattutto, era coraggioso e credeva fortemente nell’utilità del suo lavoro. Utilità che anche oggi, come si diceva, è sotto gli occhi di tutti. Non solo è possibile svolgere un giornalismo rigoroso, d’inchiesta e di vera analisi dei fatti: è essenziale perché le persone ne hanno bisogno. Perché la storia ha dimostrato l’importanza di avere giornalisti sul campo a raccontare le guerre, da quelle delle bombe, a quelle delle mafie o delle BR, fino ad arrivare a quelle combattute dentro gli ospedali, contro un virus sconosciuto e pericoloso. Questi professionisti sono ancora insostituibili e anche se i tempi e i mezzi cambiano, la lezione dei grandi giornalisti resta sempre attuale.
No Comments Yet