Esattamente 32 anni fa moriva Andy Warhol, il poliedrico artista che ha influenzato una generazione intera. Ricordato non solo come figura predominante del movimento della Pop Art, ma anche come uno dei personaggi più stravaganti, eccentrici e rivoluzionari del Novecento.
Le serigrafie di Marylin Monroe e Mao Tse Tung, rappresentati in un acceso contrasto di colori complementari, le lattine della zuppa di pomodoro Campbell’s, le fotografie in cui Warhol è immortalato con attori, cantanti e tutti i rappresentanti di spicco della scena mondana newyorkese degli anni ’60. Queste sono le rappresentazioni che nell’immaginario comune sono più associate al suo nome. Ma descriverlo completamente nelle sue eccentricità e contraddizioni è molto difficile.
«Alcuni critici hanno detto che sono il Nulla in Persona e questo non ha aiutato per niente il mio senso dell’esistenza. Poi mi sono reso conto che la stessa esistenza non è nulla e mi sono sentito meglio. Ma sono ancora ossessionato dall’idea di guardarmi allo specchio e di non vedere nessuno, niente» ha scritto nel suo libro The Philosophy of Andy Warhol, pubblicato nel 1975.
Warhol nasce il 6 agosto del 1928 a Pittsburgh, in Pennsylvania, da un’umile famiglia di immigrati slovacchi. I suoi genitori professano la religione greco-cattolica e anche l’artista frequenta la Chiesa per tutta la vita, pur non parlando mai in pubblico del suo credo religioso. Sin da piccolo rivela una personalità fragile, che gli procura frequenti esaurimenti nervosi, dovuti probabilmente anche alla morte prematura del padre e alla conseguente difficoltà economica della famiglia. Manifesta anche una precoce vocazione artistica e un’adorazione per il mondo hollywoodiano, con i cui esponenti entrerà poi in contatto durante la sua carriera. Studia disegno e pittura al Carnegie Institute of Technology di Pittsburg. In quegli anni incontra artisti che influenzano la sua formazione culturale.
Dopo la laurea, nel 1949 si trasferisce a New York, dove inizia una carriera di successo come illustratore di riviste e designer di materiale pubblicitario. Ma, immerso nel clima dinamico e stimolante della “Grande Mela”, la vera ispirazione artistica non tarda ad arrivare. Negli anni Sessanta comincia a dare il suo prezioso contributo alla Pop Art, il movimento nato negli anni ’50 che utilizza le immagini della cultura popolare e di massa, sottolineando gli elementi banali o kitsch, anche attraverso l’uso dell’ironia. Warhol ritrae volti di personalità famose in tutto il mondo, prodotti di consumo, ma anche immagini pubblicitarie. E’ affascinato dalla natura egualitaria dei prodotti di consumo di massa. «Ciò che è grande in questo paese è che l’America ha iniziato la tradizione per cui i consumatori più ricchi comprano per la maggior parte le stesse cose di quelli più poveri» scrive «Tu puoi vedere alla tv la pubblicità della Coca Cola e sai che il Presidente beve Coca Cola, Liz Taylor beve Coca Cola e anche tu puoi bere Coca Cola. Una Coca Cola è una Coca Cola e non c’è denaro che ti consenta di berne una più buona di quella che sta bevendo un barbone all’angolo ».
Ma nei suoi quadri non c’è nessun intento moralista. Warhol non giudica, crea l’arte per l’arte. E l’arte, nella sua opinione, è il consumismo, la realtà.
Ha anche numerose esperienze come regista. I suoi film sono provocatori e stravaganti, come Sleep, la pellicola nella quale riprende il suo amante che dorme, per ben 5 ore e 20 minuti.
Disegna le copertine degli album di celebri band rock, come quella di The Velvet Underground & Nico, che esce nel 1967 con l’immagine di un’appariscente banana gialla affiancata dalla scritta «Sbuccia lentamente e vedrai».
La sua fama si accresce tantissimo in pochi anni. Agli eventi mondani la sua presenza silenziosa e schiva diventa irrinunciabile, quasi un’icona. L’artista è ovunque. Nelle interviste televisive nelle quali risponde alle domande con laconici «Sì», «No» o «Ho dipinto il mio autoritratto perché avevo finito le idee» e nel suo studio newyorkese, denominato The Factory, che diventa in poco tempo un importantissimo centro di produzione artistica. The Factory è frequentato da numerosi artisti della scena underground e le stravaganze in stile Warhol non mancano. Tutto è argentato, dalle tazze dei water alle parti intime dipinte delle groupies che girano nude.
Sempre in quegli anni scopre la sua omosessualità, che terrà sempre nascosta alla madre, e, con uno dei suoi moltissimi amanti, Mario Amaya, condivide l’evento più traumatico della sua vita. Nel 1968 infatti una femminista radicale, gelosa del lavoro di Warhol, spara contro di loro dei colpi di pistola. L’artista rimane gravemente ferito e sopravvive a malapena. L’accaduto lo segna profondamente e accentua la sua eccentricità e timidezza. L’unica persona con cui si confida è la sua segretaria, Pat Hackett, a cui telefona ogni mattina. Da queste confessioni nasce la biografia The Andy Warhol Diaries, che viene pubblicata da Hackett nel 1989, due anni dopo la morte del pittore, causata da complicazioni insorte dopo un’operazione alla cistifellea.
Le pagine di questi diari raccontano di una vita cinica, fuori dagli schemi, a tratti meschina. L’artista parla di gossip e vizi delle star newyorkesi, ma anche delle sue spese quotidiane. Spazia dalle inezie alle serate di divertimento allo Studio 54.
Della sua intimità non si riesce a scorgere quasi nulla. «Se volete sapere tutto su Andy Warhol basta guardare alla superficie dei miei dipinti e di me stesso: io sono lì. Non c’è niente dietro» dice.