Novanta miliardi di dollari. Più del PIL della Croazia, del patrimonio di Mark Zuckerberg e di quanto costerebbe ricostruire tutta la Striscia di Gaza. Novanta miliardi, però, sono anche i dividendi che la compagnia petrolifera di stato, Saudi Aramco, ha pagato ai suoi azionisti. Tutto paradossalmente nella norma, se non fosse che il colosso del petrolio saudita, nel terzo trimestre del 2024, ha registrato un calo degli utili del 15%. Come continuare a pagare premi così alti? Semplice. Indebitandosi.
La Saudi Aramco
Per poter analizzare la situazione con maggiore chiarezza è necessario fare un passo indietro. Spiegando come l’indebitamento della Saudi Aramco sia in realtà specchio della salute economica dell’Arabia Saudita. Il colosso energetico, infatti, è per il 97% proprietà di stato. Dunque, del governo guidato dal principe ereditario Mohammad bin Salman Al Sa’ud, la cui priorità è una: continuare a sostenere Riyadh. E più nello specifico, continuare a foraggiare, insieme ad altre istituzioni statali o parastatali come l’Alrajhi Bank, i progetti di trasformazione del paese raggruppati nel programma Saudi Vision 2030. Tra cui troviamo il megaprogetto denominato Red Sea Project, che consiste nella costruzione di resort, porti turistici, aeroporti sulle sponde del Mar Rosso e novanta isole al largo della provincia di Tabuk, per una grandezza complessiva pari alla superficie del Belgio. E la costruzione della smart city trentatré volte più grande di New York, Neom
Ma non solo Vision 2030. Negli ultimi anni l’Arabia Saudita si è buttata in una serie di investimenti internazionali di grossa portata come i 45 miliardi di dollari spesi nella società d’investimento giapponese SoftBank e i venti nel fondo americano Blackstone. Per non parlare poi delle spesse relative all’organizzazione di eventi come la Coppa d’Asia 2027, i giochi invernali asiatici 2029, Expo 2030 e probabilmente i mondiali di calcio 2034. Tuttavia, come si può immaginare, progetti di questa portata necessitano finanziamenti altrettanto faraonici. Finanziamenti, però, che anche una compagnia come Saudi Aramco sta faticando a sostenere.
I debiti, il greggio e gli Stati Uniti
Finora l’azienda ha speso ogni giorno più di cento milioni di dollari presi in prestito.
Nel terzo trimestre del 2024, come detto precedentemente, Saudi Aramco ha infatti accumulato più debiti che liquidità disponibile: 8,9 miliardi di dollari di debito netto. Situazione diversa rispetto a un anno prima, che vedeva un surplus di 27,4 miliardi e ancora diversa rispetto al secondo trimestre del 2024, quando il surplus c’era, anche se “solo” di 2,3 miliardi.
Ma da cosa deriva quest’evoluzione finanziaria negativa? Secondo gli analisti, il responsabile di questa netta riduzione delle entrate è l’abbassamento del prezzo del greggio. In parallelo con l’aumento del debito della compagnia saudita, infatti, il prezzo medio di un barile di petrolio non raffinato è sceso di dieci dollari rispetto allo stesso trimestre nel 2023. Una diminuzione poco gradita da parte dei paesi esportatori che, riuniti sotto l’organizzazione Opec+, avevano applicato tagli alla produzione nella speranza di mantenere il prezzo a barile sopra ai 70 dollari.
Speranza che per il momento rispecchia la realtà, ma che è messa in discussione dalle aziende petrolifere statunitensi. Dapprima marginali nel settore, eppure oggi in grado di immettere enormi quantità di greggio nel mercato, con una media di 13,2 milioni di barili al giorno, più di qualsiasi altro paese. Sì, anche più dell’Arabia Saudita, la cui produzione conta 10,2 milioni di barili giornalieri, e della Russia, con 9 milioni di barili. E se vi state chiedendo quale sia la chiave del successo americano vi basta una parola per capire: fracking, o fratturazione idraulica.
Il fracking: cos’è?
Se avete seguito le elezioni ne avrete già sentito parlare. Negli Stati Uniti, infatti, il fracking è un argomento molto discusso. Tuttavia, in Italia come in molti altri paesi europei, il termine è spesso estraneo al dibattito politico e scientifico. E questo perché il fracking è stato vietato e le licenze esistenti revocate. Ma torniamo a chi di noi non sa cosa sia. In parole semplici, è l’estrazione di gas e petrolio da rocce permeabili, come le argille, tramite fratture meccaniche. Queste perforazioni vengono poi riempite con un mix di acqua, sabbia e sostanze chimiche ad alta pressione che creano delle crepe e permettono la fuoriuscita dei materiali.
Ma cos’è che crea dibattito? In primo luogo, le sostanze chimiche utilizzate. Si tratta solitamente di piccole quantità, attorno allo 0,5%, che includono acidi e agenti anticorrosivi. Sostanze che possono penetrare nel terreno e inquinare le falde acquifere. Tra il 2006 e il 2012, l’EPA – la United States Environmental Protection Agency – ha di fatto rilevato un riversamento di acque tossiche tra i 105 mila e i 2.7 milioni di litri. Ma non solo, altre questioni ambientali sono legate al fracking. Come l’aumento significativo dei consumi d’acqua e i terremoti indotti. Spesso con magnitudo ridotte, a tal punto di non essere percepite, ma pur sempre oggetto del dibattito scientifico.
Obbligazioni e indebitamenti
Fatta questa doverosa parentesi, ritorniamo a noi. Con il prezzo del greggio in ribasso e gli enormi costi da sostenere, la Saudi Aramco è stata costretta a indebitarsi, collocando obbligazioni sul mercato per oltre sei miliardi e prendendo in prestito altri tre miliardi con obbligazioni legate alla legge islamica. Ovvero i famosi sukuk, titoli di debito conformi con la legge islamica Sharia, che invece di rappresentare un debito con interessi, costituiscono una quota di proprietà.
Insomma, halal o meno, sempre di debiti si sta parlando. Un concetto che non sembra essere estraneo nemmeno allo stesso governo saudita. Motivo per cui, svariate parole sopra, avevo suggerito di utilizzare le difficoltà economiche della Saudi Aramco come strumento per capire la particolare posizione finanziaria dell’Arabia Saudita. Il cui governo tramite il fondo sovrano Public Investment Fund, ha emesso obbligazioni per cinquanta miliardi di dollari, scavalcando la Cina e diventando il paese emergente che nel 2024 si è indebitato di più.
Morale della favola? Non tutto è oro quel che luccica. Anche se tra il numero di richiedenti asilo sempre in crescita, le esecuzioni nei carceri, la persecuzione delle popolazioni indigene e, più in generale, lo stato dei diritti umani in peggioramento; forse l’Arabia Saudita tanto “luccicante” non lo è mai stata.