«Nell’hip hop si dice ci siano quattro discipline: i graffiti, il rap, il ballo, il djing… Ma la quinta disciplina è rosicare!» Scherza ma non troppo Nicolas Fantini, alias Egreen, uno dei rapper contemporanei più apprezzati in Italia. «È una roba estremamente competitiva. Nella mia vita ho perso parecchi treni perché non sono mai riuscito a stare al mio posto». 39 anni vissuti in maniera intensa: da Bogotá, dove è nato, passando poi per Detroit e Ginevra, fino ad arrivare a Busto Arsizio e Milano. Qui l’incontro con la scena rap underground: Neffa, Esa e Kaos, ai quali ha dedicato l’ultimo lavoro in studio Bellissimo. «Per la nostra generazione hanno rappresentato un momento storico in cui musicalmente ti “schieravi”», racconta agli studenti del Master in Giornalismo dell’Università IULM di Milano.
A 14 anni il padre adottivo abbandona la famiglia, «la classica storia alla 8 Mile quindi ti rifugiavi nella musica…». Una carriera fatta di alti, come il record di crowdfunding raggiunto con l’album Beats and Hate nel 2015, ma anche molti bassi, tra cui il flop in major con Fine primo tempo («il treno in faccia più grosso») e il complesso periodo del Covid in Colombia – dove era tornato per assistere la madre malata – raccontato molto bene nell’album autobiografico Nicolás. Un disco del quale dice: «non lo riascolterò mai più, ho messo fin troppo di me stesso lì dentro».
Quanto sei cambiato nel tempo?
C’è un pezzo dei Cypress Hill, Rap Superstar, che comincia con uno skit con un’intervista di Eminem. In quel frammento parlato “Em” racconta l’importanza di indossare la faccia “da poker” tutte le mattine. Quando lo ascoltai anni fa non capii bene cosa voleva dire, poi con gli anni ci sono arrivato. Ho avuto diversi problemi a livello relazionale perché molte volte non ho saputo tenere chiusa la bocca…
Qual è il tuo rapporto con gli altri rapper?
In parte invidio i miei colleghi, perché sono molto più bravi di me a essere dappertutto: io non ho più voglia di andare alla release del disco, al concerto di Tizio o Caio, un po’ perché rosico e un po’ perché non mi interessa… Secondo me è molto sano circondarsi di persone che facciano il meno possibile parte dell’ambiente. Devo avere dell’ossigeno al di fuori di quello che faccio. Comunque oggi sto bene con me stesso.
Cosa ti irrita di più della scena contemporanea?
Più che l’approccio stilistico, figlio del suo tempo, mi spaventa la totale assenza di chiavi di lettura. In Italia c’è sempre la tendenza a omologarsi al “compitino”, restare nella propria comfort zone. In altri paesi, c’è un approccio diverso alla musica derivante anche dalle radici black: la storia dei giamaicani col reggae e lo ska in Inghilterra, il retaggio coloniale molto forte in Francia, i turchi e le altre etnie migrate in Germania. Tutto questo ha avuto un impatto significativo sulla sottocultura hip hop.
Torniamo indietro. Quando hai capito che il rap sarebbe diventato la tua strada?
Non l’ho mai capito (ride, ndr). Sono sempre sul chi va là del «e se fra sei mesi non va più bene che faccio?». Non ho mai avuto certezze, forse solo quando ho realizzato il crowdfunding per Beats and Hate e da un momento all’altro mi è arrivato un bonifico di 69.000 euro… Fu probabilmente il mio picco, però me lo sono giocato malissimo, rifiutai parecchie offerte, perché avevo una testa di cazzo…
Dopo cosa è successo?
Da quel momento in poi la curva della mia carriera ha cominciato in maniera quasi impercettibile, ma costante, a scendere. Fino ad arrivare al 2019.
Quando sei finito sotto contratto con la Sony.
Con quella roba mi giocavo la faccia nell’underground. Il disco in major di solito è uno spartiacque: o va bene e diventi come Marra o Guè, oppure va male e poi è difficile tornare indietro. Ed è quello che è successo a me. Con la casa discografica abbiamo usato vicendevolmente come buonuscita il pretesto del Covid, perché il mondo “stava finendo”. Però è stato necessario per capire anche dove voglio andare.
Quanto è stato difficile per te quel periodo?
In Colombia ero convinto che la mia carriera fosse finita. Per fortuna avevo una certa solidità alle spalle che mi ha permesso, in quella bufera durata tre anni, di rimanere in qualche modo a galla, ritornando con un disco pesantissimo come Nicolás. Non ho trovato nuovi fan, ma molti dei “vecchi” sono tornati.
Cosa cambia tra lavorare con una major e un’etichetta indipendente?
Ci sono molte differenze sostanziali, per primo la comunicazione. Nelle grandi realtà qualsiasi cosa da dire diventa un problema ministeriale, ma in compenso sei molto alleggerito, perché lavori con grandi team. In realtà, sono talmente abituato a fare le cose da solo che per me questo era un problema.
Che rapporto hai con la paura?
Sto leggendo un libro che mi è stato regalato da un amico, è stato scritto da John Kirwan, un ex rugbista. Sono arrivato a un capitolo in cui parla del suo rapporto con la paura, nel quale stranamente mi rispecchio alla lettera. Questo personaggio ha avuto dei problemi enormi di depressione, nonostante fosse parte degli All Blacks, la più grande squadra di rugby neozelandese, quelli che rappresentano per antonomasia il rugbista alfa, da qui il titolo del libro Gli All Blacks non piangono. Il mio rapporto con la paura è che ci convivo, come canto anche in un mio pezzo intitolato, appunto, La paura.
C’è qualcosa che non hai mai detto nelle tue canzoni?
No, dopo aver scritto Nicolás è rimasto veramente poco di quello che potevo dire. Forse delle cose legate a delle antipatie, ma per politica mi limito sempre dall’andarci giù troppo pesante, come nella vita o nei rapporti. Per il resto ho sempre aperto il rubinetto.
Come nascono i tuoi pezzi?
Non ho un processo creativo “da artista maledetto”, scrivo di giorno come se timbrassi il cartellino, poi magari capitano delle volte in cui sono ispirato, ma tendenzialmente dopo una certa ora del giorno non sono più operativo. Anche qui c’è poco esoterismo o misticismo, a differenza di altri miei colleghi che vivono delle vite da rockstar. Ho una tendenza a sprofondare in una quantità illimitata di perdizione e quindi cerco sempre di disciplinarmi e di avere metodo. Anche prima dei concerti, cerco di non mangiare mai, non drogarmi mai, non bere mai. Specie quando ti autoproduci, se non sei disciplinato basta un attimo perché le cose non funzionino.
Cosa c’è nel futuro di Egreen?
Di recente mi sono fatto influenzare da altre cose diverse. Tra queste c’è una canzone con un gruppo punk torinese chiamato Bull Brigade (è appena uscito il singolo realizzato da Egreen con la band Il fuoco Reloaded Live, nda). Il loro manager è un amico comune. Non era scontato che legassimo perché comunque è gente tosta, schierata, invece io e il loro frontman, Eugenio Borra, abbiamo trovato molte cose che ci accomunano. Faremo anche alcune date insieme quest’estate.
Alla fine hai più vinto o più perso?
Sicuramente ho più vinto che perso: sono indipendente e ho la fortuna di fare esattamente quello che voglio io, come lo voglio e quando voglio. Nella musica, ti assicuro, ci sono tante persone che in certi momenti della loro carriera si trovano costrette a fare cose che non hanno nessuna voglia di fare. Io invece ho questo privilegio, questa libertà notevole, che non è affatto scontata.
Rifaresti tutto?
Ho fatto pace con me stesso rendendomi conto che, nel bene o nel male, in qualche maniera sono sopravvissuto alla prova del tempo. Nonostante il “rosicamento”, le paranoie, l’invidia, sono ancora in giro sui palchi, la gente paga per vedermi e i giovani mi ascoltano. Alla fine dici, non ho la Lambo, però…