Brillante e carismatica, l’attrice fiorentina interpreta se stessa e si cala nelle vesti della pura e ingenua Ofelia. Nello spettacolo teatrale “L’amore segreto di Ofelia”, un testo epistolare di Steven Berkoff, in tour dal 4 agosto nei teatri italiani e in scena il 16 settembre a Verona, Chiara Francini utilizza un linguaggio bucolico e poetico quando veste i panni della protagonista della tragedia shakespeariana, dialettale e ironico nel momento in cui torna a essere se stessa.
Se all’inizio non sembra accettare il nome del suo prescelto Amleto, nonché Andrea Argentieri, giovane attore conosciuto tramite collegamento video, Francini finisce poi per ricredersi. Le prove dei due protagonisti nelle rispettive case diventano esse stesse oggetto di rappresentazione teatrale.
Sullo schermo alle spalle dei personaggi, il pubblico è spettatore di filmati che illustrano la messa in scena del testo durante la preparazione dello spettacolo. Così l’opera scritta da Berkoff e diretta da Luigi De Angelis oltrepassa i limiti e le difficoltà del confinamento in casa e mostra il sipario sotto una nuova luce. Realtà e finzione si fondono insieme offrendo alla platea un’idea di teatro vicina al cinema.
«L’epistolario ha come natura il fatto di essere caratterizzato da un non contatto – dichiara Chiara Francini–. Questo dà la possibilità di creare quasi un prisma perché ci siamo io e Andrea che siamo gli attori, ci siamo noi in quanto personaggi dei video: è uno spettacolo estremamente attuale, quasi filologico».
L’opera plasma la realtà e arriva allo spettatore in maniera più diretta.
«Esatto, all’inizio Chiara Francini non vuole l’attore che le hanno affiancato, poi facendo le prove è un po’ come se si fondesse completamente nel personaggio che deve interpretare. Quella di Ofelia è questa sempiterna favola dell’amore e della modalità anche con la quale le donne amano, in maniera così generosa e coinvolgente. La drammaturga Chiara Lagani ha reso possibile quest’attualizzazione mettendo in scena due attori nel lockdown che devono provare, mentre il lavoro incredibile del regista Luigi De Angelis ha reso lo spettacolo peculiare».
La forma epistolare vuole dare un valore alle piccole cose. Si può dire che sia un atto voluto dato il periodo?
«Assolutamente, Shakespeare nell’Amleto cita soltanto queste lettere e Berkoff nel suo epistolario le ha scritte in versi shakespeariani per divulgare solo il linguaggio del drammaturgo. Si tratta di una modalità per veicolare la passione, antica in quanto vergata su un foglio di carta ma anche profondamente attuale, perché l’attrice Chiara Francini interpreta un personaggio da cui alla fine viene totalmente presa».
Ofelia è ingenua ma Chiara rimane se stessa.
«Soprattutto in questo spettacolo dove vesto proprio i panni dell’attrice Chiara Francini che interpreta Ofelia. C’è tutta una serie di colori che fanno parte di me, ma che magari in altri lavori è più difficile mostrare. Qua ci sono io al 100%».
Ha iniziato a recitare alla Limonaia, da allora, nonostante la carriera sul piccolo e grande schermo non ha mai abbandonato il palcoscenico. Che cosa la lega al teatro?
«È il mio primo amore ed è profondamente in linea con quella che è la mia personalità e la mia anima. Il teatro è forse il mezzo più carnale per dare vita all’interazione con il pubblico. Io faccio questo mestiere per ricevere amore dagli altri. Vedo il cinema e la televisione come telefonate di amore mentre la scrittura e soprattutto il teatro sono degli abbracci».
Quanto il liceo classico Dante ha influenzato questa sua concezione?
«L’essere stata una “dantina” mi ha dato molto rigore, ho studiato così tanto in quella scuola che qualsiasi cosa che ho fatto dopo è stata più facile. Sono molto fiera di averla frequentata, sono stati anni profondamente proficui».
Tre libri e oltre 100 mila copie vendute, che cosa ha trovato nella scrittura?
«È il mezzo più artigianale che esista. Sulla punta di quella matita hai la possibilità di creare dei mondi che il cinema per renderli vivi ha bisogno di miliardi quindi è come un po’ se tu fossi Dio, puoi imbrattare quei fogli con i tuoi colori. La cosa che mi rende più orgogliosa, oltre alle copie vendute e alle bellissime recensioni, è che alla fine i lettori ci ritrovano, anche se in una sequenza diversa, i propri colori».
Che cosa intende?
«È come se il fulcro, il vero cuore della cultura, sia la condivisione, soprattutto in questo periodo abbiamo capito come la possibilità non tanto di vivere, ma di sopravvivere sia legata strettamente alla comunità. La scrittura ti fa comprendere la bellezza e l’importanza della diversità, ognuno di noi ha un meraviglioso microcosmo ma per restare in vita bisogna pensare come se fossimo tutti parte di uno stesso respiro».
Nelle due miniserie “Love me Stranger” e “Love me Gender” invita il telespettatore ad andare oltre i confini. Crede che la pandemia abbia diminuito o accentuato le ostilità verso il diverso?
«Tutti gli eventi particolarmente traumatici implicano un’evoluzione o un’involuzione. Credo e voglio credere che questo momento ci abbia insegnato come sia necessario, al fine di camminare, appoggiarsi alla persona che si ha accanto. C’è una meravigliosa poesia di Sandro Penna: ‘felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune’».
Dunque, nei suoi progetti emerge una grande apertura mentale.
«Sì, io sono fatta così, molto curiosa e avvolgente. Scelgo i lavori e ci credo fino in fondo. Da questo lockdown dobbiamo aver imparato ancora di più quanto è importante concepirsi come degli irrinunciabili esemplari di unicità legati insieme per essere musica, come in un canto gregoriano».
E la sua ironia?
«È un’arma, un’arma di difesa, di attacco, ma soprattutto una benedizione».