Si apre un nuovo fronte per le proteste sindacali, quello dei carburanti. I principali gestori annunciano uno stop a partire da domani mercoledì 25 marzo. Le ragioni dello sciopero sono quelle del diritto alla salute, al fine di assicurare maggiori protezioni ai lavorati in questa fase di emergenza sanitaria.
Il rischio contagio allarma il mondo del lavoro, e per scongiurare questa nuova ondata di serrate, il Governo ha convocato un incontro fra le principali sigle sindacali e i ministri dell’Economia e Finanze e dello Sviluppo economico, Roberto Gualtieri e Stefano Patuanelli.
Sul tavolo l’elenco delle attività considerate non essenziali da Cgil, Cisl e Uil, una lista, che secondo i sindacati, sarebbe stata ampliata su richiesta di Confindustria.
“Il Premier può fermare lo sciopero. Non uccidiamo il futuro”, commenta il leader della Cigl Maurizio Landini. Dal canto suo, il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia invoca maggiore flessibilità sull’interruzione delle attività, focalizzando l’attenzione su un preoccupante dato economico: “così perdiamo 100 miliardi al mese”, insomma una richiesta di aiuto al Governo per chi resta chiuso.
È corsa al cambio del codice delle attività
Dalla riunione emerge la volontà del Governo di rimodulare la lista delle principali attività produttive da tenere aperte, e mentre l’ondata di scioperi, partita inizialmente dai metalmeccanici del nord si estende alle fabbriche chimiche, ai cantieri navali, alle aziende tessili, includendo anche i bancari, la Cgil denuncia una rincorsa da parte delle aziende al cambio del codice Ateco per poter continuare a produrre.
In tal caso, le restrizioni introdotte dall’ultimo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, verrebbero superate consentendo il proseguimento delle attività.
Secondo Landini, “aver introdotto nel decreto la deroga a livello territoriale per le aziende la cui attività è agganciata a quelle consentite, previa informazione e decisione prefettizia, ha scatenato una malsana rincorsa. Il rischio è che tutte le aziende che hanno un minimo collegamento con attività consentite chiedano comunque di produrre al 100%. Per la Cgil, infatti, continua a lavorare il 57,6 per cento dei lavoratori, un dato in controtendenza con quello di Confindustria per la quale il 70 per cento delle produzioni italiane è fermo.