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Marianne Mirage torna con “Teatro”: «La cosa peggiore che mi hanno detto? Abbassa la voce»

Nove tracce che si prendono il loro tempo. Nove canzoni che non hanno fretta di stupire. A otto anni dalla sua partecipazione al Festival di Sanremo nella sezione Nuove Proposte, Marianne Mirage torna così. Con il suo quinto lavoro in studio, dal titolo TeatroUn disco sensuale, vintage e che in più momenti accarezza l’onirico. Dove a vincere sono la lentezza e la gavetta di anni al servizio della musica. Non è un debutto, ma è come se lo fosse. Perché Marianne Mirage suona finalmente come ha sempre sognato.

Se Teatro fosse un colore, un numero e un giorno della settimana. Quali sarebbe e perché? 

Rosso come le tende di un teatro, 8 come l’infinito. Però come giorno sarebbe venerdì 17, che è il giorno della sua uscita. Per me è stato un superamento delle mie paure, perché io sono superstiziosa. Invece ho capito che non bisogna esserlo.

Nel singolo Chiudi gli occhi canti “quel dolore mi ha resa più bella”. Ma quanto è utile la sofferenza per fare buona musica?

Secondo me bisogna superare il pensiero che si debba per forza stare male per scrivere. Chiudi gli occhi è nata quando io ormai ero felice. Ed ero quindi passata davanti ai momenti di sofferenza. Più che altro è importante essere delle persone che hanno vissuto, ma anche mettersi in discussione e avere un passato da raccontare.

In Baci scrivi “il mio futuro mi sorride”. Che cosa vedi nel tuo futuro artistico?

Prima di quella frase canto anche “tu ridi ma non sei felice”. Quindi in realtà è la risposta al fatto di reagire, e di vedere il futuro con una prospettiva felice. Un futuro che oggi mettiamo in discussione sia a livello climatico sia a livello geopolitico, ma anche a livello umano. Secondo me è importante rimanere positivi e sentire che l’umanità insieme può portarsi avanti. Mi piace l’idea di Stefano Mancuso (saggista e neuroscienziato, ndr.) quando parla delle piante. Perché le piante hanno molta più esperienza di noi, e io imparo più dalle piante che dagli esseri umani.

In che modo?

Le piante insegnano dove dirigersi. Non si autosabotano e non fanno la guerra tra loro. Magari solo una guerra per la luce. Come racconta Mancuso, le piante usano il mutuo soccorso. E anche in un bosco ognuna si aiuta a vicenda. Ecco, io immagino questo nel mio futuro artistico, e cerco di alimentarlo con i fan. Il live è un momento dove riesco a interagire con le persone che mi ascoltano, che per me è la cosa più importante in assoluto.

La copertina di “Teatro”, il nuovo disco di Marianne Mirage. Foto: Leonardo Vecci Innocenti

In un’intervista a Gay.it, parlando di Cielo, hai spiegato che la canzone racconta la storia di una suora che perde la fede. Da dove nasce lo spunto per questo testo?

Sono una persona che si ciba molto di attualità, e avevo letto di questo fenomeno in Italia e nel mondo dove sempre meno persone si rivolgono alla fede. Allora ho pensato: “E se fosse una suora a perdere la fede?”. Da lì è nata Cielo, sulla speranza delle persone di ritrovare la fede. Non solo in Cristo, ma anche nei rapporti umani e nella natura.

Come la fede nel futuro di cui parlavi prima?

Esatto.

Ai primi ascolti di Cielo, non ho colto la trama alla base del pezzo. È stato intenzionale non esplicitarla? Per far sì che la canzone fosse adattabile alle storie di tutti?

Mi è piaciuto tantissimo un commento che ho ricevuto per Chiudi gli occhi. Diceva “Marianne, non spiegarla mai” scritto da una fan. Sono dei testi estremamente importanti per me, ed è bello vedere come si può giocare con i soggetti. Per esempio, in Bocca di rosa (di Fabrizio De Andrè, ndr.) non si dice mai che la protagonista è una prostituta. E secondo me è quello che rende la canzone così forte.

In Senza Ridere ripeti “Io e te senza tre”. È un riferimento a un terzo incomodo in una relazione?

Ritorniamo sulla lettura ambigua dei testi. Mi è già stato detto che si pensava al triangolo, molti l’hanno letta in questa chiave. E invece “senza tre” vuol dire senza un figlio. Quindi è un rapporto dove tutto è finito, e anche le promesse di creare una famiglia non si sono realizzate.

Foto: Leonardo Vecci Innocenti

Ascoltando i tuoi lavori precedenti, da Quelli come me a a Teatro, ti ho riconosciuta in modo costante nelle liriche. Mi racconti invece l’evoluzione strumentale della tua musica?

Bellissima questa cosa che hai detto, mi ci ritrovo moltissimo. Penso che adesso sono musicalmente esattamente quello che volevo essere. C’è stato un periodo in cui era difficile fare musica suonata in Italia, perché c’era più una ricerca di suoni elettronici. Che io non ho mai amato essendo chitarrista. E Quelli come me aveva un suono crudo che mi piaceva molto. Teatro rappresenta quello che ho nel cuore, e sono felicissima di aver trovato Marquis come produttore. Perché lui ha proprio un suono specifico di musica vintage e di ricerca. Negli anni, la mia musica è diventata più organica.

Quindi Teatro è una sorta di nuovo debutto?

Totalmente.

Oggi, rispetto a dieci anni fa, per un artista emergente è più facile o difficile arrivare al successo?

Io non ho mai pensato al successo. Ho pensato solo a fare musica. Il successo non dev’essere visto come un fine, ma come una conseguenza alla bella musica. Oggi abbiamo tante possibilità di farci ascoltare, ma la musica sta scomparendo dalle città, a meno che non sia nei grandi palazzetti. Io parlo dei piccoli palazzetti dove ho fatto carriera, dove ho fatto la gavetta che è fondamentale. A tutti i musicisti emergenti che vorrebbero iniziare dico: “Prendete il vostro strumento e buttatevi nei pub a suonare.”

Un ricordo della gavetta?

Ricordo la cosa più straziante che mi è stata detta. Quando suonavo nei pub chitarra e voce. Un ragazzo mi ha chiesto: “Puoi abbassare la voce che stiamo parlando?”. Quella per me è stata una frase importantissima. E ogni volta che salgo sul palco ricordo quel momento, perché mi ha insegnato a impormi con la mia musica e a farmi rispettare.

Foto: Leonardo Vecci Innocenti

In un mercato discografico sempre più saturo, cos’ha di unico il prodotto Marianne Mirage?

Il mio disco è un disco da non ascoltare. È un disco da comprare, mettersi seduti e ascoltare con molta lentezza. Facendo il contrario di quello che si fa quotidianamente. Se tu stai andando in giro e vuoi ascoltarlo in modo così (con distrazione, ndr.), non farlo. Non lo fare perché non capiresti. Teatro è un disco che ha voglia di prendersi del tempo, e in questo è unico.

In fin dei conti, Teatro merita un ascolto perché…

Perché c’è tanto da imparare a teatro. Merita un ascolto perché è bello entrare in un teatro, aspettare che le luci si spengano. Rimanere al buio e lasciarsi trasportare. E poi, iniziare a piangere senza essersene accorti.

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