Marina Boer: «Al Leoncavallo i miei ideali. Con lo sfratto Milano perde un simbolo»

Il futuro del Leoncavallo è appesa a un filo molto sottile. Martedì 10 dicembre era in programma lo sfratto del centro sociale di via Watteau 7, a Milano, ma poi l’ufficiale giudiziario incaricato di far eseguire lo sgombero si è semplicemente presentato accompagnato dagli avvocati della famiglia Cabassi, proprietaria della cartiera occupata dal 1994, e ha fissato come una nuova data per lo sfratto il 24 gennaio.

Nel 2005 i Cabassi hanno avviato una causa contro il ministero dell’Interno perché, pur essendoci una sentenza che stabiliva che lo stabile dovesse essere sgomberato, non era stato mai fatto nulla per liberare l’edificio, che è così rimasto occupato. Secondo la sentenza, a dover essere sfrattata è l’associazione delle Mamme Antifasciste del Leoncavallo, registrata ufficialmente presso la sede del centro sociale.

Le storiche presidenti dell’associazione, Carmen de Min e Luciana Castellini, sono morte qualche anno fa, a ottantotto e novantadue anni. Oggi la presidente è Marina Boer, di settantatré anni, che ai microfoni di Master X ha manifestato il suo forte attaccamento al Leoncavallo, in cui ha fatto attività per quasi cinquant’anni.

Quando è arrivata al Leoncavallo per la prima volta?

Alla fine del 1980. Venivo dal centro sociale Santa Marta, che era stato sgomberato. In quel periodo non c’erano tanti centri sociali, c’erano tanti nuclei di aggregazione giovanili che cercavano degli spazi dove poter esprimere la loro socialità. E il Leoncavallo era particolarmente vivo e interessante perché al suo interno erano presenti gruppi con esperienze molto diverse, per lo più gruppi operai ma anche studenti e militanti di partiti politici. La necessità di confrontarsi di queste esperienze così diverse è stata una delle cose che ha caratterizzato il Leoncavallo e gli ha permesso di trasformarsi e sopravvivere per quasi cinquant’anni.

Perché aveva scelto il Leoncavallo?

Io sono arrivata al Leoncavallo per motivi politici e per svolgere alcune attività che facevo e che faccio tutt’ora, che sono la grafica e il teatro.

Com’è nata l’associazione delle Mamme Antifasciste del Leoncavallo?

Dalla morte di Fausto e Iaio, nel 1978, diverse donne sono entrate al Leoncavallo, tra cui le mamme dei due ragazzi uccisi. Questo collettivo si era costituito inizialmente come gruppo informale. Si riunivano lì e seguivano attività, per lo più rivolte alle donne. E questo ha arricchito tantissimo il contesto del Leoncavallo. In un secondo momento, all’inizio degli anni Novanta, il gruppo è diventato un’associazione riconosciuta.

Cos’è cambiato in questi anni?

I motivi politici che esistevano all’inizio continuano a esistere, chiaramente si sono modificati nel tempo perché si è modificata la città e il modo di fare politica. È diverso il mondo. Il Leoncavallo da sempre ha cercato di proporre la visione di un mondo possibile al di fuori del centro sociale e per questo è stato necessario cambiare. Ci siamo sempre chiesti come mantenere vivi i nostri ideali in un mondo in continua evoluzione.

Si ricorda di un incontro particolarmente fatto al Leoncavallo?

Personalmente, al di là dei personaggi che hanno attraversato questi spazi, quello che mi è rimasto maggiormente è la continua verifica delle proprie idee attraverso attività e iniziative. La verifica di un’aspirazione della vita in tutte le giornate. Ci chiedevamo: come possiamo trasportare i nostri ideali nelle cose che facciamo?

Come si è declinata per lei questa domanda?

Io di lavoro faccio la grafica. Quando sono entrata al Leoncavallo ci occupavamo della comunicazione. Quindi mi sono spesa in quel campo, cercando di far corrispondere le competenze professionali alle idee di un mondo che mi sarebbe piaciuto vivere.

Che prospettive immagina per il Leoncavallo?

Prospettive negative. Con la sentenza di condanna nei confronti del ministero dell’Interno a risarcire i proprietari, è chiaro che le cose si sono messe male per noi. Tuttavia, mi auguro che ancora una volta si trovi il modo per mostrare, ancora una volta, la necessità dell’esistenza di un luogo come questo in città.

A cosa si riferisce?

Occorre trovare un altro spazio. Ma al momento in Comune non ci ha fatto sapere nulla.

Cosa perderebbe Milano senza il Leoncavallo?

Perderebbe un importante luogo di confronto di idee. Adesso molto più di prima. Prima bene o male c’era un fermento culturale: c’erano le lotte sociali e sul lavoro. Ora Milano è una città in cui conta il denaro e la speculazione. Per questo motivo, il Leoncavallo è il simbolo della possibilità di una città diversa.

 

Alessandro Dowlatshahi

Classe 1998, ho conseguito la Laurea Magistrale in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Milano, chiudendo il mio percorso accademico con un lavoro di ricerca tesi a Santiago del Cile. Le mie radici si dividono tra l’Iran e l’Italia; il tronco si sta elevando nella periferia meneghina; seguo con una penna in mano il diramarsi delle fronde, alla ricerca di tracce umane in giro per il mondo.

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