In Georgia, le contestazioni sono arrivate al quinto giorno di scontri. I manifestanti denunciano la svolta autoritaria presa dalle istituzioni dopo le elezioni del 26 ottobre, ma a scatenare le proteste è stata la decisione, annunciata dal governo, di sospendere i negoziati di adesione all’Unione Europea.
Un Paese in rivolta
Da ormai cinque giorni le notti di Tbilisi, capitale della Georgia, sono illuminate dai roghi e dai fuochi d’artificio che i manifestanti accendono per le strade della città. I contestatori scagliano pietre e bottiglie agli agenti di polizia, che rispondono cercando di disperdere la folla con cannoni d’acqua e lacrimogeni. Gli scontri sempre più violenti di questi giorni hanno già fatto registrare decine di ricoveri.
Le proteste si sono diffuse anche oltre la capitale, in città più periferiche come Batumi, Porti, Kutaisi e Rustavi. E si allargano a coinvolgere più fasce della popolazione: gli studenti di alcune scuole, con il sostegno dei professori, hanno abbandonato le aule durante gli orari di lezione. Altrettanto hanno fatto le università, unitesi in scioperi e marce.
Una controversa situazione politica
Le ragioni dietro le proteste sono da ricercarsi nelle vicende politiche che agitano la Georgia dalle elezioni dello scorso 26 ottobre. A trionfare alle urne è stato il partito filorusso Sogno Georgiano, la cui vittoria è stata denunciata dai partiti pro-Ue come “irregolare”. Di questo avviso anche la presidente Salomé Zourabichvili, che ha annunciato che non terminerà il suo mandato, in scadenza a dicembre, fino a che non si terranno nuove elezioni.
Ma il leader di Sogno Georgiano, Irakli Kobakhidze, le ha lanciato un ultimatum senza appello: «Capisco la situazione emotiva di Zourabichvili, ma ovviamente il 29 dicembre dovrà lasciare la sua residenza e consegnare questo edificio al presidente legittimamente eletto». L’appuntamento è quindi rimandato al 14 dicembre, quando il neoeletto Parlamento – seppur giudicato illegittimo da alcuni – si riunirà per eleggere il nuovo presidente.
@masterx_iulm (✒️Davide Aldrigo) In Georgia le contestazioni sono arrivate al quarto giorno di scontri. I manifestanti denunciano la svolta autoritaria dopo le elezioni del 26 ottobre, ma a scatenare le proteste è stata la decisione del governo di sospendere i negoziati di adesione all’Unione Europea. Scopri di più su MasterX!
I rapporti con l’Ue al centro delle polemiche
In questo contesto, ciò che davvero preoccupa tanti cittadini georgiani è la messa a rischio dei rapporti tra il Paese e l’Unione Europea. L’amministrazione Zourabichvili, infatti, filo-europea, si era impegnata nei negoziati per l’adesione all’Unione. Ma il nuovo premier, Kobakhidze, ha annunciato cinque giorni fa di voler sospendere i colloqui con Bruxelles. L’ondata di dissenso a questa notizia ha innescato le proteste che stanno funestando il Paese.
Lunedì lo stesso Kobakhidze è sembrato però ritrattare. Durante una riunione al ministero degli Esteri ha sottolineato che i diplomatici hanno ricevuto «chiare istruzioni riguardo al fatto che il processo di integrazione europea della Georgia deve continuare con la massima intensità». Per poi aggiungere: «Questa è la realtà. Tutto il resto è semplicemente una falsità deliberatamente diffusa dall’opposizione radicale e dai media ad essa associati».
Le reazioni della comunità internazionale
Come spesso accade, però, i fatti parlano più delle parole e in questo caso a far discutere è il pugno di ferro che il nuovo governo sta adottando nei confronti di chi manifesta. Dall’inizio della protesta sono state arrestate più di 200 persone e gli scontri continuano con feriti da entrambe le parti.
Immediate le reazioni internazionali. Domenica, Lituania, Lettonia ed Estonia hanno annunciato che imporranno sanzioni nazionali contro coloro che «partecipano alla repressione delle proteste legittime in Georgia». Nello stesso incontro, la ministra degli Esteri canadese Mélanie Jolie ha detto che il Canada seguirà l’esempio e «sanzionerà gli individui chiave e anche le imprese, le entità che sono coinvolte in violazioni dei diritti umani o nella corruzione». La questione finirà certamente sul banco dell’Ue, dalla quale ci si aspetta presto una presa di posizione.