Don Burgio e «i ragazzi che hanno paura di scomparire»

Kayrós è un termine greco che può essere tradotto con “occasione irripetibile”, proprio come quella che Don Claudio Burgio regala ai ragazzi che ospita nella sua comunità. Dal 2000 il fondatore della Kayros Onlus aiuta gli adolescenti in difficoltà e cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica sul dramma giovanile vissuto in tante periferie. Grazie alla serie fenomeno Mare Fuori sono state messe sotto i riflettori le vite di tanti ragazzi provenienti da realtà disagiate. Nonostante in questi anni la comunità abbia accolto anche trapper molto controversi, l’obiettivo di Don Claudio è dimostrare che «non esistono ragazzi cattivi». Si tratta invece di adolescenti fragili, cresciuti in contesti difficili dai quali possono essere salvati.

Come è nata in lei l’idea di fondare l’associazione Kayros?

Ragazzi della comunità minorile Kayros

L’idea è nata dal mio primo oratorio in periferia di Milano, a Lambrate. Arrivavano tanti ragazzi, soprattutto minori stranieri non accompagnati. Siamo partiti da un’urgenza che si avvertiva negli anni della grande migrazione. Abbiamo aperto la prima casa e nel giro di poco siamo arrivati a ben dieci. Poi con il diminuire dell’ondata migratoria, e con la mia nomina a cappellano dell’IPM Beccaria, i nostri ospiti sono cambiati. Sono ormai quasi tutti ragazzi che hanno procedimenti penali a carico.

Quanti ragazzi conta attualmente la sua comunità?

Adesso abbiamo una unica sede a Vimodrone. Sono 7 appartamenti e all’interno troviamo circa 50 adolescenti tra i 14 e i 20 anni.

È il Tribunale dei Minori a mandarvi tutti i ragazzi?

Sì, sono tutti inviati dal Tribunale. Una piccola quota è rappresentata da ragazzi con a carico procedimenti civili e amministrativi ma la quasi totalità è formata da ragazzi provenienti dall’Istituto Penitenziario Minorile.

Lei è diventato un personaggio molto conosciuto. Si aspettava di arrivare a gestire una realtà così importante?

No, ho sempre fatto un lavoro molto nascosto. Non si tende a pubblicizzare questo tipo di attività. Nei primi anni il mio metodo educativo era abbastanza contestato dai tribunali e dai giudici. L’idea era che fosse una comunità troppo libera e poco contenitiva. Poi però i fatti ci hanno dato ragione.

Lei parlava di alcune critiche che ha ricevuto per i suoi metodi. Cosa è successo? È stato accusato dalle autorità?

Ma no, c’è sempre stata una serena sopportazione del mio lavoro. Però nei primi anni c’era qualche perplessità. Anche per noi ovviamente ci sono delle regole, ma non può essere il primo punto. Noi non crediamo nella giustizia retributiva, ma abbiamo una forte idea di giustizia riparativa.

Il motto della sua comunità è “non esistono ragazzi cattivi” …

Ragazzi della comunità minorile Kayros

Sì, la cattiveria non è innata nei ragazzi, è una maschera spesso indossata dagli adolescenti per non far percepire il loro dolore, il loro senso di frustrazione, di fragilità e debolezza. Quindi certi reati possono essere frutto di un malessere latente, presente sin dai tempi dell’infanzia. Quando li accogliamo dobbiamo far percepire che la comunità non è un carcere. Non trattiamo i ragazzi come detenuti ma, anzi, cerchiamo di valorizzare al massimo i loro talenti e desideri. E allora ecco che questo ambiente viene vissuto come casa e come famiglia più che come comunità istituzionale. La nostra idea è che prima della regola viene la persona.

Lei porta nel cuore le storie di tanti ragazzi che sono passati dalla comunità. Vuole raccontarne qualcuna?

Molti sono padri di famiglia, gli altri lavorano tutti. C’è la storia di un nostro ragazzo, Daniele Zaccaro, che dalle rapine è arrivato alla laurea in scienze dell’educazione. Oggi fa l’educatore nella nostra comunità dove svolge tutti i progetti per le scuole e incontra gli studenti. Porta la sua testimonianza insieme al magistrato che lo aveva condannato.

L’associazione Kayros è famosa per aver ospitato diversi trapper emergenti, fra cui Baby Gang e Sacky. Che ci dice di questi ragazzi?

Baby Gang, Simba La Rue e Sacky sono diventati molto amici in comunità. Loro li ho presi dal Beccaria e ospitati in comunità per quasi tre anni. Il loro desiderio di fare musica ha trovato appoggio da parte nostra, anche se all’inizio fu molto contestato. Io credo molto nella libertà d’espressione dei ragazzi. La musica a volte diventa uno strumento ottimale per tirarsi fuori da contesti difficili e riuscire a raccontare la propria storia. Soprattutto per Baby Gang: era un ragazzo che non parlava mai, né con i giudici né con gli assistenti sociali. Attraverso la musica siamo riusciti ad aprire con lui un dialogo molto confidenziale.

Le canzoni di questi trapper hanno testi molto controversi. Adottano un linguaggio violento e fanno spesso riferimento alla criminalità…

Non voglio legittimare tutto quello che fanno e scrivono. Però penso che chi ha avuto un passato devastato può trovare una possibilità di riscatto nella musica. Oggi invece si tende a stroncare sul nascere questo tipo di cantanti. C’è un accanimento molto forte, soprattutto da parte delle istituzioni. Noi riteniamo che la società debba chiedersi il motivo per cui questi ragazzi hanno vissuto ciò che cantano. Com’è stato possibile? Dov’era lo Stato? Dov’era la Chiesa? È ovviamente sbagliato usare armi, droga ed essere violenti, però è quello a cui sono stati abituati fin da bambini. Quando hanno cominciato a scrivere, non avevano la percezione e la coscienza di quanto fosse sbagliato. Poi però questo loro modo di esprimersi è diventato una denuncia sociale.

Ha in mente la storia di un ragazzo che lei pensava di essere riuscito a salvare e invece poi è tornato alla sua vecchia vita?

Questo succede, certamente. Io vado a trovare anche i ragazzi che tornano in carcere. Alcuni tornano al Beccaria, altri approdano al carcere degli adulti. Tornare in carcere non è un fallimento ma un momento di caduta, la tappa di un percorso di crescita. Per certi ragazzi è facile superare la prima caduta perché hanno già una coscienza formata. Altri invece, che hanno avuto un’infanzia veramente devastata, ci mettono di più e possono ricadere. Vado spesso a trovare Baby Gang in carcere: mi auguro che esca presto. Anche se, nel suo caso, c’è una forma di accanimento giudiziario. I reati più gravi di cui viene accusato finiscono per decadere, ed intanto lui si è fatto qualche mese di carcere. Questo si trasforma in un accumulare continuamente rabbia.

L’accanimento contro Baby Gang di cui parla ha quindi sortito l’effetto contrario? Quello di demotivare il ragazzo?

Sì. Io lavoro con lui affinché possa riconciliarsi con il suo passato e possa avere un approccio diverso. Ma queste carcerazioni gratuite lo fanno tornare indietro. È vero che durante una perquisizione è stata trovata un’arma non registrata. Quello è un errore, lo sa anche lui. Però è stato accusato di altri reati, evidentemente non commessi. E infatti i capi d’accusa poi decadono. Forse le indagini dovrebbero essere fatte meglio, in modo meno pregiudizievole.

La sua esperienza con questi ragazzi ricorda molto la serie “Mare Fuori”. Si ritrova in questa interpretazione?

La serie non l’ho vista tutta. Per quello che ho visto ci sono degli spunti interessanti, alcuni realistici, altri meno. Porta alla luce un fenomeno di grande attualità. Poi è chiaro che Mare Fuori è contestualizzata al sud, nel panorama delle mafie. Al nord ci sono situazioni ben diverse. Qui la delinquenza giovanile è legata a contesti sociali e territoriali difficili, in cui i ragazzi agiscono in gruppi spontanei ma in assenza di un’organizzazione criminale. Come nella serie, la lotta per il potere e l’affermazione di sé sono cose che accadono nella realtà. Questi ragazzi hanno paura di scomparire, di non esistere. Per cui certe forme di bullismo e di potere sono anche e soprattutto un tentativo di affermazione di sé.

 

Valentina Cappelli

Giornalista praticante e dottoressa in Giurisprudenza presso l'Università Cattolica di Milano. Aspirante giornalista televisiva, mi appassionano le tematiche di cronaca giudiziaria, politica, cultura e spettacolo.

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