Accelerare la campagna vaccinale degli stati membri localizzando la produzione del vaccino al loro interno: è così che l’Unione Europea spera di anticipare le mosse del Covid-19, cessando finalmente di inseguirlo. Non sarà facile. Numerosi ostacoli si frappongono sulla via della produzione nazionale dei vaccini, avvalendosi dei brevetti concessi da Pfizer, Moderna e AstraZeneca. Proprio di questi ostacoli discuteranno il pomeriggio di giovedì 25 febbraio il ministro dello sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, e il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi.
Al MISE, Scaccabarozzi spiegherà al ministro come l’operazione appena descritta sia fattibile, ma non nell’immediato. “Non è che si schiaccia un bottone ed esce una fiala”, ha dichiarato il presidente di Farmindustria. Da quando inizia la produzione, infatti, passano circa sei mesi prima di ottenere il siero. Ma il vero problema, in realtà, è un altro e non è legato ai tempi di realizzazione, bensì ai modi: in Italia mancano i bioreattori. Ne esistono pochi, che vengono già utilizzati per il vaccino contro la meningite e per quello antinfluenzale. Certo, potrebbero essere riconvertiti, ma in tal caso si sacrificherebbe la produzione dei due sieri appena citati. Così, dalla penuria di un vaccino si passerebbe a quella degli altri.
Possibili alternative
Sono due le possibili alternative. A evidenziarle è Rino Rappuoli, coordinatore della ricerca sugli anticorpi monoclonali di Toscana Life Sciences e direttore scientifico di Gsk, l’azienda farmaceutica che produce il vaccino contro la meningite. La prima, la più lineare, coincide con il trasferimento in Italia della tecnologia già sviluppata da Pfizer o AstraZeneca. La seconda, la più tortuosa, porta invece alla costruzione ex novo dei bioreattori. Anche qui, il problema è il solito: se nel primo caso occorre un anno prima di avviare la produzione del vaccino, nel secondo se ne impiegano due di anni.
Ma le difficoltà non finiscono qui. Ai sei mesi necessari per la realizzazione del siero e ai problemi legati al reperimento dei bioreattori, se ne aggiungono altri, anch’essi di non poco conto. Uno tra tutti: l’inesistenza di una sovranità vaccinale nazionale. Premesso che i meccanismi di solidarietà europei ci hanno permesso, finora, di non soccombere al Covid-19 e di immaginare un futuro di cui il virus non faccia parte, non va dimenticato che le fiale prodotte vanno comunque redistribuite in tutto il continente. Gli accordi presi dalla Commissione, ad esempio, prevedono che all’Italia spetti solo il 13,6% del totale delle dosi disponibili. Tale automatismo, salvifico sul lungo periodo, nell’immediato sacrificherebbe il singolo Paese produttore.
Strategia di lungo periodo
Si è compreso come le tempiste legate alla produzione nazionale dei vaccini non consentano, nel breve termine, di anticipare le mosse del virus. Quello indicato dall’Unione Europea, tuttavia, non rappresenta un percorso sterile. Il vaccino contro il Covid-19, è noto, necessità di richiami. Il fabbisogno di vaccini, pertanto, non diminuirà negli anni; all’opposto, si manterrà costante. Si rivelerebbe dunque alquanto conveniente rafforzare, nonché incrementare, la produzione di un bene indispensabile come il vaccino. La via alternativa, del resto, conduce alle chiusure nei prossimi mesi.