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Centri migranti in Albania, Medihospes licenzia la maggior parte dei lavoratori

Medihospes ha interrotto il rapporto di lavoro con quasi tutti i dipendenti assunti per la gestione dei centri in Albania. La cooperativa, che si era aggiudicata l’appalto da 133 milioni di euro delle strutture di trattenimento per migranti, ha deciso di licenziare – a partire dal 15 febbraio – la maggior parte dei dipendenti, un centinaio. Si tratta dell’ennesima brutta notizia per il governo Meloni sulle sorti dei centri di Shengjin e Gjader.

La lettera di Medihospes

«La informiamo che a causa di una serie di pronunce giudiziarie contraddittorie e non conformi agli orientamenti della Corte di Cassazione italiana, nonché dell’impossibilità momentanea di accogliere nuovi flussi di migranti, siamo costretti a sospendere temporaneamente il nostro servizio». Con questa lettera, visionata dai giornalisti di Domani, Medihospes ha licenziato un centinaio dei suoi dipendenti.

Nelle stesse ore, alla Camera il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi stava assicurando, durante il question time, che il progetto Albania sarebbe andato avanti – «per sviluppare le notevoli potenzialità di utilizzo delle strutture» – evitando di abbandonare il progetto che il governo considera un modello per tutta Europa.

La succursale albanese

A intestare la comunicazione ai lavoratori è stata la succursale della cooperativa Medihospes, aperta a Tirana e creata dopo l’aggiudicazione dell’appalto. Il presidente è lo stesso della cooperativa italiana, Camillo Aceto, ex amministratore delegato della Cascina, la cooperativa commissariata nell’inchiesta della procura di Roma su “mafia capitale”.

Per questo motivo, nonostante l’ente gestore fosse italiano, le norme applicate sono state quelle albanesi, attraverso quello che viene chiamato distacco comunitario del lavoratore.

Secondo una fonte consultata da Domani, nei centri sarebbero quindi rimasti solo alcuni medici e alcuni addetti delle pulizie, oltre agli agenti delle forze dell’ordine.

La costosa ipotesi Cpr

Negli scorsi giorni il Viminale ha ventilato l’ipotesi di una conversione delle strutture di trattenimento dei migranti in centri per il rimpatrio (Cpr). La trasformazione dell’intera struttura di Gjader (e forse anche di quella di Shengjin), però, avrebbe costi di gestione triplicati rispetto a quelli previsti per il progetto iniziale. Secondo il quale le strutture avrebbero dovuto accogliere circa 12 mila persone all’anno: e questo perché il tempo di trattenimento per ciascun migrante sarebbe di 28 giorni.

Nei Cpr le condizioni sono invece diverse: i tempi di trattenimento vanno dai tre ai diciotto mesi per persona. Questo comporterebbe un doppio danno alle casse statali. In primis, un aumento di circa due volte e mezzo del costo di mantenimento, passando dagli attuali 340 euro a testa al giorno a 700 euro. E poi una triplicazione delle spese di viaggio per i rimpatri, oggi stimate da Frontex attorno ai 5.800, dal momento che i viaggi sarebbero tre: il viaggio verso l’Albania, il ritorno in Italia e poi il volo da un aeroporto italiano verso il Paese d’origine del migrante.

Alessandro Dowlatshahi

Classe 1998, ho conseguito la Laurea Magistrale in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Milano, chiudendo il mio percorso accademico con un lavoro di ricerca tesi a Santiago del Cile. Le mie radici si dividono tra l’Iran e l’Italia; il tronco si sta elevando nella periferia meneghina; seguo con una penna in mano il diramarsi delle fronde, alla ricerca di tracce umane in giro per il mondo.

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