Salario minimo, ferie pagate e versamento dei contributi pensionistici: a ciò avranno diritto i circa 70 mila autisti britannici di Uber. Il gigante americano dei trasporti, invero, ha riconosciuto loro la qualifica di lavoratori dipendenti. Si tratta di una svolta epocale perché i driver, per la prima volta, perdono lo status di lavoratori autonomi, accedendo alle maggiori tutele del lavoro subordinato. Svolta ancor più significativa perché avviene proprio in Inghilterra, il più grande mercato europeo di Uber, pari a circa il 6,4% delle prenotazioni lorde totali della società americana.
Il riconoscimento giunge dopo una lunga battaglia legale, iniziata nel 2016 e conclusasi il 29 febbraio 2021 con una sentenza della Corte Suprema. La pronuncia ha attribuito ai driver la qualifica di lavoratori dipendenti. Per il giudice di ultima istanza, infatti, Uber è un vero e proprio datore di lavoro privato perché: detta le tariffe e i massimali di guadagno del personale; impone contratti di lavoro standard e non negoziati; costringe gli autisti ad accettare un minimo di corse giornaliere, come in un turno di lavoro; ammonisce ed eventualmente licenzia i driver sulla base dei giudizi espressi dai passeggeri.
Né autonomi né dipendenti
Il riconoscimento è stato facilitato dal diritto del lavoro britannico che prevede l’esistenza di una particolare categoria intermedia tra i lavoratori autonomi e quelli dipendenti. È all’interno di tale classe, in realtà, che Uber ha collocato i suoi autisti. Ne consegue un minor numero di tutele rispetto al lavoro subordinato. Non è prevista, ad esempio, l’indennità di licenziamento né è incluso il congedo di paternità e maternità. Ad essa, inoltre, si applica il livello salariale minimo, che in Inghilterra è pari a 8,72 sterline (10,16 €) l’ora per le persone con più di 25 anni.
Ed è proprio sullo stipendio che sono giunte le prime proteste. Uber, infatti, ha dichiarato che il salario minimo verrà conteggiato dal momento in cui i driver accetteranno la richiesta di passaggio e fino a quando non lasceranno il passeggero nel luogo richiesto. Non viene quindi conteggiato il periodo d’attesa tra una richiesta e l’altra. Decisione, questa, che ha suscitato l’opposizione dell’App Drivers and Couriers Union, il sindacato indipendente per autisti e corrieri basato su app. Per l’associazione «non è accettabile che Uber decida unilateralmente la base di spesa del conducente nel calcolo del salario minimo. Questo deve essere soggetto a contratto collettivo».
Le proteste sullo stipendio, in realtà, riflettono la grave crisi in cui è incorso il settore privato dei trasporti. Durante la pandemia l’offerta di autisti ha spesso superato la domanda di passeggeri. I salari, così, si sono ridotti considerevolmente. Uber, d’altro canto, ha registrato solo nel 2020 una perdita netta di 6,8 miliardi di dollari. Adesso dovrà anche riclassificare i conducenti britannici, incrementando ulteriormente i costi d’impresa.
Il tweet dell’App Drivers and Couriers Union:
WE WON – Co-lead claimants @yaseenaslam381 @jamesFarrar and ADCU declares UK Supreme Court landmark victory over Uber.
Read our press release 👇https://t.co/N9iqSu16yW— ADCU (@ADCUnion) February 19, 2021
L’eco della sentenza inglese
Quanto avvenuto nel Regno Unito potrebbe costituire un precedente in grado di mettere in crisi l’intero sistema della gig economy. Le prime crepe, del resto, si sono intraviste anche fuori dalla Gran Bretagna. Nel marzo 2020, ad esempio, la Corte di Cassazione francese ha riconosciuto a un autista di Uber lo status di lavoratore dipendente.
Un referendum ha invece salvato Uber in California, lo stato americano in cui si trova la sua sede. I californiani, nel novembre 2020, hanno deciso di non applicare alle gig economy la legge statale per i lavoratori. I driver, pertanto, continueranno a essere considerati lavoratori autonomi; ma con alcuni benefit: Uber, infatti, ha concesso ai suoi autisti alcuni privilegi, come l’assicurazione sanitaria.