Podcast e giornalismo di guerra, Gabriella Simoni al Noir in Festival

«Quello che racconto spiega ma non giustifica. Entro nella storia, come se dovessi liberarmi di me, per entrare nei panni degli altri. È questo che dovrebbe fare ogni giornalista, liberarsi dal personalismo». Gabriella Simoni presenta il podcast Quei cattivi ragazzi davanti a una platea di studenti e insegnanti dell’Università IULM al Noir in Festival 34, la settimana organizzata dall’ateneo per la letteratura e il cinema Noir. A moderare l’evento, Mazzino Montanari e Marta Lucia Zanichelli.

La valigia di un inviato di guerra

 

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Il giornalismo di guerra e la personalizzazione

«Come giornalista ho seguito tutte le guerre dall’Iraq nel 1991. Libia, Somalia, Sud Africa, Ruanda, Ucraina negli ultimi anni. Tutte tranne la guerra in Bosnia, perché nel 1995 ero incinta. Ho imparato tutto sul campo, confrontandomi con mosti sacri come Gian Giacomo Foà, Ettore Mo e Mimmo Càndito», ha raccontato Simoni.

Per la giornalista, l’unico modo per raccontare un conflitto o, in generale, ogni storia, è quello di vedere con i propri occhi. Andare sul posto, parlare con le persone, mischiarsi nel flusso degli eventi: «Bisogna distinguere l’iconografia del giornalismo di guerra dal vero giornalismo di guerra. L’iconografia è fatta di giubbotti antiproiettile con la scritta “Press”,  di elmetti militari, di stand-up estremamente scenografici. Il vero giornalismo di guerra invece si fa mischiandosi nelle zone del conflitto cercando sempre di capire cosa c’è dietro».

Simoni sostiene che il problema del giornalismo di oggi sia la “personalizzazione”: «Il giornalista non dovrebbe parlare di quello che vive lui. Ma di quello che vivono le persone, cercare di mettersi nei loro panni. Io sono stata prigioniera in Iraq per otto giorni. Lì ho conosciuto l’uomo di cui mi sono innamorata e con cui ho fatto un figlio. Sono stata linciata in una piazza da un centinaio di uomini. Ma non sono andata a raccontarlo in un salotto televisivo. Il giorno dopo ho parlato della guerra e delle persone che la stavano vivendo».

Il podcast e la forza dei dettagli

Il podcast per Simoni è stato un ulteriore passo contro il personalismo del giornalismo: «Raccontare la storia di un’altra persona è quasi liberatorio. Non mi stuferò mai di confrontarmi e parlare con gli altri, è il fulcro di questo mestiere».

Nel podcast Quei cattivi ragazzi, la giornalista racconta la storia di «ragazzi di cui la società ha paura. Perché rubano, picchiano, sparano, spacciano, vanno fuori controllo. O almeno così ci vengono raccontati». Sono i ragazzi della comunità Kayros, a Vimodrone alla periferia di Milano.  Ragazzi che hanno un futuro intero da scrivere, tutte le possibilità per farlo e anche tutto il rischio di sprecarlo.

Non sono storie straordinarie, però, avverte Simoni: «sono storie normali che raccontano molto di più. Soprattutto sono storie grigie, dove non c’è bianco e nero. Lo stesso palazzo ha il piano terra e l’attico, il ricco e il povero».

Un punto fondamentale del raccontare una storia, realizzata con qualsiasi mezzo, è la ricerca del particolare. «Trovare il dettaglio giusto non è semplice, va guadagnato. I fatti che ho raccontato li ho trovati dopo molti incontri. Bisogna creare una relazione di fiducia affinché si instauri un legame spontaneo e sincero. È andata così con Bryan, uno dei ragazzi protagonisti della prima puntata della serie. I dettagli della notte della fuga dal Beccaria me li ha raccontati dopo aver creato un legame», racconta Simoni.

Discorso diverso quello che riguarda la capacità di scegliere il dettaglio giusto: «è un po’ come quando i musicisti creano una melodia. È una capacità personale. Per esempio, quando ero in Ucraina sono rimasta colpita dal rumore dei trolley delle persone in fuga. Un rumore incessante di bagagli che si muovono, trasportati da persone vestite a festa, perché stavano portando via i vestiti migliori. Un po’ come Bryan che fugge dal Beccaria e indossa strati di vestiti a cui tiene».

Ettore Saladini

Laureato in Relazioni Internazionali e Sicurezza alla LUISS di Roma con un semestre in Israele alla Reichman University (Tel Aviv). Mi interesso di politica internazionale, terrorismo, politica interna e cultura. Nel mio Gotha ci sono gli Strokes, Calcutta, Martin Eden, Conrad, Moshe Dayan, Jung e Wes Anderson.

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