«Preparatissimo, acuto e leale. Non c’era argomento che non lo interessasse, dalla politica allo sport, dalla filosofia alla sociologia, alle tematiche, allora di moda, della contestazione giovanile. Affrontava qualsiasi argomento con la pacatezza del ragionatore, cercando sempre di analizzare i fenomeni senza passionalità», così Leonardo Valente, direttore dell’Avvenire, ricorda il giovane giornalista assunto nel 1969.
Walter Tobagi, nel corso degli anni, non ha perso queste caratteristiche, che lo hanno reso uno degli inviati più apprezzati del Corriere della Sera. Dopo aver seguito diverse vicende di cronaca e approfondito i più svariati aspetti della società del suo tempo, ha dedicato molte energie allo studio dei gruppi extraparlamentari di sinistra. La sua vita è stata interrotta il 28 maggio del 1980 da cinque colpi di pistola: a soli 33 anni, è stato ucciso in un attentato terroristico organizzato dalla Brigata del XXVIII marzo.
In occasione del 40esimo anniversario della sua morte, l’Odg della Lombardia e l’Associazione Walter Tobagi per la formazione al giornalismo, hanno promosso un premio giornalistico dedicato alla sua memoria. Hanno partecipato gli iscritti alle scuole di giornalismo milanesi della Libera università di lingue e comunicazione (IULM), dell’Università Cattolica e dell’Università degli Studi di Milano.
Il primo premio per l’Università IULM è stato vinto da Virginia Nesi con il suo articolo:
La nostalgia di un giornalismo libero, senza condizioni
Il ticchettio della macchina da scrivere e la voce del dimafonista al telefono. Due suoni inconsueti e quasi estranei per i giornalisti dell’oggi. Eppure, quei rumori ancora riecheggiano nella memoria di coloro che hanno vissuto negli anni in cui era doveroso consumarsi le suole delle scarpe per colmare i menabò.
Quaranta anni fa, diventare giornalisti significava scegliere l’impegno civile. Walter Tobagi lo sapeva bene. Giovane, impaziente, «sempre con l’ansia e l’angoscia di sapere e capire senza risparmio di forze», scrisse il collega Alberto Ronchey sul Corriere della Sera all’indomani dell’attentato. Quella mattina del 28 maggio 1980 anche l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, in visita a Toledo, scoppiò a piangere per la morte del cronista buonoche scriveva di fabbriche, sindacati e scuole.
«Walter Tobagi ha lasciato l’umiltà del cronista e la raffinatezza dell’analista – ammette l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli –. Adesso c’è nostalgia per il giornalismo del passato ma nell’attualità ho visto grandi esempi di cronisti che sarebbero piaciuti a Tobagi, giornalisti che verificano di persona ciò che succede, superando la pigrizia tecnologica. Avere tutto a portata del proprio schermo spesso dà la sensazione di essere testimoni in diretta ma il giornalismo si fa andando a vedere cosa è successo, senza essere prigionieri di verità confezionate».
Eppure, oggi risulterebbe strano lavorare sempre sul campo. Internet serve alla tavola delle redazioni migliaia di informazioni. Aggiornare le notizie in tempo reale diventa una priorità, essere veloci un requisito. La qualità dei contenuti rischia di annacquarsi. «Di quel giornalismo rigoroso e preciso, oggi è rimasto pochissimo. Molte volte, i giornalisti si alimentano dal web e non escono: questo non significa fare informazione», afferma il giornalista Massimo Fini. È stato lui, dopo la moglie Stella, a vedere Tobagi per l’ultima volta. «Il direttore di La Nottediceva che il nostro lavoro è prima con i piedi, poi con la testa», aggiunge. Tradotto: per prima cosa, il giornalista deve uscire, osservare, annusare, poi scrivere e dare un senso a quel materiale.
Allora Tobagi aveva 33 anni, era presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti e insegnava all’Università Statale di Milano. Si ostinava «a riflettere con chiarezza e a difendersi con coraggio». Il 26 gennaio 1980, in uno dei suoi ultimi articoli scrisse: «Il terrorista può sbucare dall’ombra e uccidere chiunque. Il tragico paradosso è che uccidono per dimostrare che sono vivi». Così addomesticava le paure. «Aveva deciso di abbandonare le inchieste sul terrorismo delle brigate rosse, è stato ucciso dalla Brigata 28 marzo, da due maleducati figli di papà», riferisce Fini.
Nell’era di Internet, a volte manca il tempo per osare. Al giornalista del presente non viene più richiesto di essere impegnato socialmente. La comunicazione si trasforma in un prodotto da vendere. Così la figura dell’intellettuale, storico come era Tobagi diventa un esempio per chi vuole andare in una direzione contraria rispetto a dove trascina la superficialità di molte notizie diffuse sui social media.
Nel giornalismo del futuro c’è il rischio di creare categorie di lettori. Perché non tutti oggi sono disposti a pagare per leggere notizie di qualità. Ma la buona informazione ha bisogno di tempo per essere verificata. Walter Tobagi ne era consapevole. Quel giornalista scomodo, fedele al pubblico con la vista lunga e l’olfatto fine, sapeva prevedere bene ciò che poteva succedere. E oggi la società lo rimpiange. Amaramente.
Hanno inoltre partecipato al concorso con i propri elaborati:
Leonardo Degli Antoni, Emergenza e informazione, perché il “copia e incolla” non funziona
Eleonora Fraschini, Capire e spiegare senza giudicare: il giornalismo di Walter Tobagi
Francesco Li Volti, Dal Watergate ai Panama papers: l’inchiesta non è morta
Gabriella Mazzeo, Libertà è partecipazione: il giornalismo dentro e fuori dallo schermo
Ilaria Quattrone, Così il giornalismo di Walter Tobagi fa “scuola” a quello attuale
Martina Soligo, Il giornalismo che consuma le scarpe di Walter Tobagi