Quante volte la politica usa metafore per raccontarsi al mondo? L’uso di figure retoriche aiuta, da sempre, la comprensione di storie e informazioni. Espressioni ormai parte del linguaggio comune, ma il cui vero significato, e di conseguenza l’origine, risultano ormai lontani e nebulosi. Oggi ve ne raccontiamo quattro, tutti legati ad argomenti militari, tra i più utilizzati in politica.
«Fare quadrato»
«Il governo fa quadrato». Lo sentiamo dire spesso in radio, tv o sui giornali. Accade quando un esponente di uno schieramento è sotto attacco da parte degli avversari. I suoi compagni di partito si stringono attorno a lui per difenderlo. Come avviene in questi giorni, dopo le parole del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi dopo la strage di migranti a Cutro. Ma da dove arriva questo modo di dire?
Il «quadrato» è stata per secoli una formazione militare di fondamentale importanza. Già Plutarco, parlando della battaglia di Carre (53 a.C.), cita l’usanza dei legionari romani di chiudersi in questo tipo di formazione per riorganizzarsi e difendere il proprio comandante, ospitato al sicuro al centro del poligono. A partire dal XIV secolo, e soprattutto dopo l’arrivo delle armi da fuoco, il «quadrato» divenne la principale formazione utilizzata dalle fanterie per respingere le cariche di cavalleria, divenendo una delle tattiche difensivo-offensive migliori a disposizione degli eserciti.
Con la progressiva scomparsa della cavalleria, anche il «quadrato» sparì. Gli ultimi utilizzi della formazione si sono registrati nei teatri coloniali, dove le forze indigene erano ancora sufficientemente arretrate. Una delle ultime testimonianze è proprio italiana: la battaglia dello Scirè, in Etiopia, nel 1936.
«Difendere a spada tratta»
Su questa metafora la spiegazione è piuttosto scontata. Usata per segnalare una difesa ad ogni costo, convinta e incrollabile di una persona o un’idea, l’espressione deriva naturalmente dal linguaggio bellico.
Da sempre, in uno scontro fisico, ci si può difendere in due modi: passivamente o attivamente. La resistenza passiva ha come presupposto una maggiore forza rispetto all’avversario, che sia questa naturale o fornita da elementi accessori (fortificazioni, corazze, scudi ecc…), e viene di norma impiegata quando manca la volontà di reagire, vuoi per considerazioni tattiche o per semplice assenza di interesse. La difesa attiva, invece, trova la sua massima espressione nel contrattacco. E, per colpire, servono volontà di farlo e armi adeguate. Da qui la locuzione «a spada tratta»: se ho intenzione di rispondere a un’aggressione con la stessa moneta, sarà buona norma estrarre (in italiano più arcaico «trarre») la propria sciabola dal fodero. E questo non è un movimento automatico: serve l’intenzione.
«Scendere in campo»
Si tratta di un’espressione piuttosto recente, almeno nel suo utilizzo politico. A sdoganarla, nel 1994, fu Silvio Berlusconi. L’idea del leader di Forza Italia era di basare l’intera campagna di lancio del partito sul linguaggio calcistico, più semplice per parlare alla gente rispetto al «burocratese» della prima repubblica. Le squadre, per disputare la partita, «scendono in campo».
Pochi sanno, però, che la locuzione sportiva stessa ha un precedente bellico. Anche per gli eserciti, da secoli, si usa questa metafora. Che poi è figurata fino a un certo punto. Nel Medioevo il cuore della vita militare erano i castelli, di norma edificati sulla cima dei rilievi. Esclusi gli assedi, le battaglie non potevano svolgersi sui pendii scoscesi. Era necessario che le truppe si schierassero in zone libere e meno impervie nelle vicinanze degli insediamenti, spesso adibite a coltivazione o pascolo. Campi, appunto, situati più in basso delle fortezze.
«Franco tiratore»
Iniziamo dicendo che no, non c’entrano i francesi. Tra le metafore più utilizzate in assoluto nel dibattito politico, i «franchi tiratori» erano, in origine, gli antenati di quelli che oggi chiamiamo «cecchini»: militari (o mercenari) incaricati di causare il maggior danno possibile al nemico, con un tiro preciso e rimanendo nascosti.
Il termine si diffuse a partire dal 1870, con la guerra franco-prussiana (quindi, in realtà, i francesi c’entrano qualcosa): i «franc-tireurs» («tiratori liberi») erano combattenti, anche operanti in piccoli gruppi, che praticavano azioni di guerra contro truppe regolari per evitare l’occupazione o l’evacuazione di centri abitati, agendo con notevole libertà rispetto ai rigidi ordini militari tradizionali.
A partire dagli anni 50 l’espressione si è diffusa in politica, indicando quelle figure che, in maniera precisa e occulta (come i cecchini) agivano in totale autonomia dalla linea ufficiale stabilita dai partiti e dai loro leader. Solo che, in questa accezione, il danno provocato dal «franco tiratore» non è al nemico, bensì alla sua stessa parte. Quell’elemento di franchezza, intesa come libertà dalle regole, si trasforma in impossibilità di controllo da parte dei propri alleati.