ETIOPIA E TIGRAY: FRATELLI O NEMICI?

Dopo la fine, nel 2018, di una guerra ventennale contro la vicina Eritrea, l’Etiopia sembrava aver trovato un periodo di pace con il governo del premier Abiy Ahmed Ali. Purtroppo però, questa utopia non è durata a lungo.

Dal 3 novembre 2020, quelle che prima erano piccole scaramucce, si sono trasformate in una guerra civile tra il governo federale e una piccola regione del nord chiamata Tigray, guidata dal gruppo armato Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF).

Cartina dell’Etiopia (fonte La Civiltà Cattolica)
IL PUNTO DI VISTA GEOPOLITICO
Le cause

Nell’agosto 2020, il Primo ministro Abiy Ahmed decise di rinviare le elezioni generali a causa del lockdown nazionale. La regione del Tigray rifiutò la sua scelta, che avrebbe conseguentemente prolungato di un anno il suo mandato, e organizzò un voto autonomo non riconosciuto dal governo. Questa può essere considerata la causa principale della rottura dei rapporti tra la regione e il Primo ministro, ma non è l’unica. Nel 2019 Abiy Ahmed ha fondato il Partito della Prosperità, formato da diverse coalizioni a rappresentare l’esecutivo etiope. Il suo partito aveva una visione nazionalistica, volta a creare un’Etiopia con un’identità unica e non frammentata etnicamente. Gli oppositori, invece, temevano che i singoli gruppi avrebbero perso la loro autonomia regionale, decidendo per questa ragione di mettere in atto una votazione illegittima in segno di protesta.

Il parere di un esperto

L’Etiopia è suddivisa in nove regioni, caratterizzate da una forte identità etnica. Il gruppo più numeroso è quello degli Oromo, attualmente al potere e di cui fa parte il Primo ministro. Il Tigray, sebbene molto piccolo, dispone però di una grande forza paramilitare composta da molti veterani, gli stessi che un tempo avevano combattuto Addis Abeba contro l’Eritrea.

La guerra civile tra due sole parti si è però trasformata in una tragedia per l’intero Paese, coinvolgendo anche altre regioni. Alcuni sostengono che non sia stata causata solo dal Tigray, ma sia il risultato di vari problemi e instabilità presenti in Etiopia. A portare avanti questa tesi è Ali Watson, professoressa di relazioni internazionali all’Università di St. Andrews, che studia i diritti degli attori e delle comunità emarginate.

«Ci sono diversi conflitti etnici all’interno dell’Etiopia e il Tigray ne è un esempio. È un paese che ha un governo di lunga data e che da fuori risulta apparentemente stabile», dice la Watson. «Il problema è la forte repressione mediatica. Quello che realmente succede non viene mostrato al mondo. Sono in corso violenze e conflitti etnici spesso non segnalati». In effetti, le reti internet e telefoniche nel Tigray sono state interrotte, rendendo estremamente difficile la comunicazione con il mondo esterno. Dopo che la regione ha deciso illegalmente di indire le proprie elezioni regionali, il governo ha vietato ai turisti di recarsi nel Tigray.

Ancora più complicata è stata la consegna degli aiuti umanitari. Il governo ha ammesso che le truppe federali hanno avuto degli scontri con i lavoratori delle Nazioni Unite ed alcuni di loro sono stati addirittura arrestati. «È stato negato agli osservatori e ai gruppi di aiuto umanitario – aggiunge la Watson –  il pieno accesso al Tigray. Ci sono segnalazioni di atrocità che sono state commesse in quella zona dalle forze etiopi e dai loro delegati.»

Dal punto di vista politico, ci sono opinioni diverse sul comportamento del Primo ministro Abiy Ahmed. All’inizio del suo mandato è stato visto come un pacificatore, dato il suo ruolo decisivo nel porre fine alla guerra con l’Eritrea, che gli è valso il premio Nobel per la pace nel 2019. Ora il suo approccio politico sembra diverso.

Ma è davvero tutta colpa del suo governo? Ali Watson commenta: «Forse questa guerra avrebbe potuto essere evitata con una politica più conciliante, ma in ogni caso alcune delle questioni hanno radici più antiche del solo mandato dell’attuale Primo ministro. È vero, c’era ottimismo riguardo a un cambiamento politico. Ora la preoccupazione è per un ritorno al passato». «Continuando così – conclude la Watson –  il risultato sarà una maggiore repressione, che potrebbe comportare risposte simili in altre parti dell’Etiopia, come un effetto domino. E questo dovrebbe preoccupare la comunità internazionale.»

A questo proposito, l’Unione Europea si è limitata a congelare 107 milioni di dollari di sostegno al bilancio dell’Etiopia, spingendo lo stesso Alto Rappresentante Joseph Borrell a dichiarare che l’Europa ha fallito nel dare una risposta efficace alle «violazioni dei diritti umani su larga scala.» L’amministrazione Biden, invece, ha preso una serie di provvedimenti attuando il Magnitsky Act (legge che permette agli Stati Uniti di sanzionare individui responsabili di gravi violazioni dei diritti umani e atti di corruzione ovunque commessi).

Gli ultimi sviluppi

Ad oggi si stimano più di 500.000 morti nella guerra. Responsabili non solo gli scontri, ma anche la grave crisi umanitaria che ha travolto il paese. Molti sono morti per fame, per mancanza di un adeguato supporto sanitario (il 90% degli ospedali è stato distrutto o danneggiato) o per esecuzioni extragiudiziali.

Sfollati assistiti dall’ONU World Food Programme (fonte AfricaRivista)

Finalmente, dopo due anni di guerra e dieci giorni di trattative, il 2 novembre 2022 il governo etiope e il Fronte di Liberazione Popolare Tigrino hanno siglato, in Sudafrica, un accordo di pace a Pretoria, in Sudafrica. Erano presenti i due garanti del patto, cioè l’ex Presidente nigeriano Olusegun Obasanjo e il Presidente della Commissione dell’Unione Africana Moussa Faki Mahamat. Fondamentale è stata l’influenza dell’amministrazione statunitense, interessata a riportare stabilità nella regione il prima possibile.

Il Tigray è tornato sotto il controllo del governo etiope. Le Tigray Defence Forces (TDF, la forza paramilitare tigrina) sarebbero state smobilitate entro 30 giorni dall’accordo e un’amministrazione ad interim governerà la regione fino alle prossime elezioni. L’effettiva riconsegna delle armi da parte delle milizie ribelli è però iniziata solo l’10 gennaio 2023. Sono ripresi anche gli aiuti umanitari in Tigray, bloccati da luglio 2021, momento in cui il governo introdusse anche una legittimazione retroattiva delle deportazioni e degli arresti di massa di tutti coloro che fossero sospettati di legami con il TPLF. L’organizzazione a tutela dei diritti umani Human Rights Watch aveva più volte condannato la detenzione di migliaia di tigrini, rinchiusi in condizioni insostenibili. Anche l’UNHCR, Alto Commissariato ONU per i Rifugiati, può ora intensificare gli aiuti rivolti alle popolazioni colpite dal conflitto nell’Etiopia settentrionale.

IL PUNTO DI VISTA MILITARE

Tracciare un punto di vista militare sul conflitto in Tigray non è semplice. Da una parte, gli scontri nel nord dell’Etiopia si configurano tipicamente come eventi da guerra civile, il che rende difficoltoso conteggiare le forze in campo. Dall’altra, poi, il TPLF ha affrontato sul campo non solo le forze governative di Addis Abeba, ma anche altre milizie di regioni confinanti e, non ultime, le forze armate di uno stato estero, l’Eritrea. Insomma, lo scenario militare del conflitto tigrino è facilmente condensabile in una parola: caos.

Un continuo tira e molla

Dall’inizio delle ostilità, il 3 novembre 2020, alla loro chiusura ufficiale due anni dopo, la guerra in Tigray è stata un costante susseguirsi di alti e bassi, per entrambe le parti. Dopo una prima “offensiva preventiva di autodifesa” dei tigrini contro le forze governative etiopi, le truppe di Addis Abeba, insieme con quelle della vicina Eritrea e le milizie Amhara, dall’omonimo distretto, hanno rapidamente riconquistato le posizioni perdute. È poi seguita una lunga fase di guerriglia, culminata con la riconquista ribelle di Macallè, capoluogo della regione.

Miliziani delle TDF (fonte Bloomberg)

Poi è stato il momento di liberare tutto il Tigray dalle milizie occupanti, procedendo in seguito verso sud, con l’intenzione di raggiungere la capitale nazionale e rovesciare il governo. Le forze etiopi hanno contrattaccato con durezza, riuscendo (non senza fatica) a ricacciare le TDF nei loro confini. Si è tentata la via della riconciliazione, ma i colloqui sono falliti. Una nuova offensiva congiunta di Etiopia ed Eritrea ha causato centinaia di morti e ulteriore devastazione, prima che l’accordo di pace del novembre 2022 mettesse ufficialmente fine alle ostilità.

Terra bruciata e violenze

Come è facile immaginare, in questo continuo susseguirsi di avanzate e ritirate, la popolazione civile ha patito pene terribili. Entrambe le parti si sono rese colpevoli di massacri, torture e stupri.

Le TDF sono state accusate inoltre di reclutare forzatamente nuovi miliziani, anche minorenni. Alcuni report segnalano una sorta di “tassa” umana da pagare: ogni famiglia avrebbe dovuto fornire un combattente, pena l’arresto o ritorsioni ben peggiori. Non ci sono però conferme a questo riguardo.

Etiopi, eritrei ed Amhara, invece, hanno applicato in maniera intensiva la tattica della terra bruciata, perpetrando distruzioni indiscriminate con i loro costanti bombardamenti d’artiglieria e aerei, con alcuni attacchi arrivati a colpire anche campi profughi, oltre che commettendo un numero elevatissimo di violenze sessuali.

La guerriglia dei tigrini e la cecità degli etiopi

Il sostegno della popolazione del Tigray, nonostante gli alti e bassi, è però rimasto invariabilmente in mano alle TDF. Anzi, nei momenti di occupazione da parte della coalizione a guida etiope il supporto verso le forze tigrine ha toccato punte elevatissime. Questo anche e soprattutto per quella tendenza alla distruzione e allo stupro delle truppe regolari e straniere.

Devastazione in Tigray (fonte United States Institute of Peace)

Le TDF, che avevano iniziato la guerra con un numero di miliziani certamente non paragonabile a quello degli avversari, quasi senza veicoli e pezzi d’artiglieria, hanno resistito e, in molti momenti, hanno avuto addirittura la meglio sulle forze regolari. Dal canto loro, i ribelli tigrini possedevano una profonda conoscenza del territorio montuoso della regione. In piccole squadre di massimo 10 o 12 uomini, i miliziani hanno saputo tendere imboscate e svolgere azioni di sabotaggio devastanti. Con il supporto della popolazione, i piccoli nuclei erano in grado di comunicare tramite passaparola e, dopo aver colpito, di sparire nel nulla. Non si tratta di una tattica inedita: pensiamo alla stessa Resistenza italiana nel periodo 1943-45. Stupisce che l’Etiopia non abbia tenuto conto delle inevitabili conseguenze dell’accanirsi sui civili.

GLI SCENARI FUTURI

Con l’accordo dello scorso novembre le speranze di pace in Etiopia si sono riaccese. Ma due grandi ombre si allungano ancora sul grande Paese del corno d’Africa. In primis, i termini del cessate il fuoco non soddisfano la popolazione del Tigray. Il negoziatore tigrino Getachew Reda ha parlato di «dolorose concessioni», per le quali i tigrini chiedono spiegazioni al loro partito rappresentante: perché tante concessioni al governo centrale, dopo aver lottato così duramente? Inoltre, grande assente al tavolo delle trattative è stata l’Eritrea, alleato decisivo del governo di Abiy Ahmed. Lo Stato costiero non risulta citato nei documenti firmati in Sudafrica, cosa che lo legittima a proseguire nel conflitto con piccole scaramucce e operazioni nella regione. Insomma, le speranze di una pace duratura in Tigray sono ancora lontane dal concretizzarsi.

Umberto Cascone

Nasco a Savona in un rovente mattino di agosto del 2000. Sin da bambino mi interesso di tematiche militari, passione che porto avanti ancora adesso. Negli anni nuovi argomenti iniziano a affollarmi la mente: dalla politica estera a quella interna, passando per una dose abbondante di storia. L'università mi regala l'amore per la radio, che mi spinge a entrare in RadioIULM e a prendere le redini prima del reparto podcast (marzo 2022-ottobre 2023) e poi dell'intera emittente (settembre 2022-gennaio 2023). Ho tanta voglia di fare, di raccontare il nostro tempo, fatto anche di argomenti spesso trascurati, eppure importantissimi. Ci riuscirò? Sarebbe bello dire, alla Manzoni, che lo giudicheranno i posteri. Ma l'unica risposta sincera è: lo spero.

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