Alla fine degli anni ’70, l’azienda alimentare Unidal è stata messa in liquidazione e molti dei suoi dipendenti sono finiti in cassa integrazione. Episodi di questo tipo, seguiti da tensioni sociali e richieste di diritti, possono essere raccontati in diversi modi.
Walter Tobagi ha sempre scelto l’approccio più diretto e oggettivo: per raccontare la complessa vicenda della società milanese, ha evitato di indulgere alla retorica, preferendo intervistare un’operaia.
Nell’articolo Storia di una donna che faceva panettoni, (Corriere della Sera, 9/10/1978), il testo è costituito dal discorso, che a tratti diventa invettiva, di Filippa, lasciata a casa insieme ad altri dipendenti in esubero. Si percepisce tutta la rabbia della 47enne siciliana, che è quella di tante persone che non sono state ascoltate: «Solo gli estremisti si occupano di noi… se ritrovo un lavoro al sindacato non mi iscrivo più». Le parole della donna ci permettono di capire non solo la sua condizione, ma anche quella di un intero mondo di lavoratori abbandonati e delusi che si è allontanano dal sindacato per avvicinarsi ai gruppi di estrema sinistra.
La resa così puntuale di questa atmosfera è ottenuta attraverso un preciso metodo giornalistico, come spiega lo stesso Tobagi nella conclusione dell’articolo Quale cultura dietro il potere (Corriere della Sera, 5/8/1978): per valutare le azioni di qualcuno (si riferisce a un partito, ma la considerazione sembra avere portata più ampia) «occorre cercar di capire le idee che stanno dietro quei comportamenti, la coscienza che i protagonisti hanno di se stessi e del proprio ruolo. Solo così è possibile cercar di capire e spiegare, senza bisogno di dover, sempre e comunque, giudicare».
Lo stesso spirito imparziale, racconta la figlia Benedetta in Come mi batte forte il tuo cuore, si ritrova in un diario di Tobagi: «non deridere, non piangere e non detestare le azioni umane, ma prova a capirle», si era appuntato dall’Etica di Spinoza.
Nello studio di Tobagi c’erano anche numerosi quaderni fitti di appunti: per capire e spiegare le azioni umane, svolgeva un meticoloso lavoro di verifica delle fonti e di ascolto dei protagonisti.
Questo metodo oggi è seguito solo in parte: molto spesso per rincorrere il ritmo frenetico dell’informazione o per mancanza di risorse, il giornalista non esce dalla redazione.
«Ora le interviste si fanno tutte per telefono» spiega Antonio Ferrari, che è stato collega di Tobagi al Corriere, «sembrano prodotti preconfezionati: non vedi in faccia chi parla, non percepisci quando la voce trema, se la domanda lo ha impressionato o compiaciuto». E in effetti, quanti dettagli preziosi avrebbe perso Storia di una donna che faceva panettoni se l’inviato non si fosse recato sul posto: non avremmo potuto vedere la «vecchia casa senza telefono né ascensore, in una corte costruita sessant’anni fa», i «capelli ingrigiti e un po’ ispidi» di Filippa che non si può permettere il parrucchiere e la donna, ai saluti, non avrebbe posto la domanda che ha fornito una chiusa così forte: «Lei che dice, me lo ridanno un lavoro?».
«La realtà va misurata sul campo», continua Ferrari «il compito del giornalista è verificare le fonti e cercare la controinformazione, senza accontentarsi delle veline e delle versioni ufficiali», come faceva Tobagi, si trattasse di terrorismo o di un’operaia in cassa integrazione.
Oggi la missione del cartaceo, che fisiologicamente non può competere in velocità con la stampa digitale, potrebbe essere proprio quella di approfondire, di capire e spiegare le ragioni che si nascondono dietro ai fatti.