Qualche mese fa, mentre ero in procinto di attraversare Piazza Cinque Giornate, avvertii una vibrazione del mio smartphone. Si trattava di un messaggio automatico inviato da un grande magazzino situato all’angolo con Corso di Porta Vittoria, da lì poco distante, che mi chiedeva una valutazione riguardo la mia ultima esperienza di shopping in quell’outlet.
«Strano», pensai, dal momento che non vi avevo mai posto piede all’interno. Né ricordavo di aver fornito i miei dati a quell’azienda, o tantomeno acconsentito a ricevere notifiche su un mio dispositivo personale. Per quale ragione, quindi, mi era arrivato quel messaggio?
La risposta è semplice: stavo utilizzando l’applicazione di Google Maps e quest’ultima aveva tracciato il mio spostamento, facendo scattare il meccanismo nel momento in cui ero transitato nei pressi del negozio.
Questo aneddoto basta a farci comprendere i potenziali rischi che corriamo nel momento in cui utilizziamo un software basato su un sistema di geolocalizzazione. E solleva una questione quanto mai attuale in questi mesi, in cui sono state al vaglio dei governi numerose app di questo genere al fine di tracciare i contagi e contrastare la diffusione del Covid-19.
«Lo trovo semplicemente inquietante, sbagliato e anche molto, molto pericoloso», commenta Stefano Piazza, esperto di privacy, cybersecurity e terrorismo online. «Chi ci garantisce che questi dati non vengano poi utilizzati per altri scopi? Chi mi assicura che non arrivino in mani sbagliate? Chi deciderà quale società fornirà questo sistema? E chi c’è dietro questa società? Che legami ha ad esempio con paesi come la Russia o la Cina? Non si tratta di questioni irrilevanti, qui occorre procedere con grandissima cautela».
È evidente che i sistemi di tracciabilità su Maps o simili facciano gola alle grandi multinazionali, che sono sempre alla ricerca di potenziali nuovi consumatori. «Un interesse che sarà sempre più marcato, anche dopo la pandemia di Covid-19», sottolinea il tecnico.
Non c’è quindi da stupirsi se ci vengono mostrate pubblicità relative a negozi o ristoranti delle zone che frequentiamo. E ciò, concorda Piazza, «costituisce una violazione della privacy». Ma come proteggersi? Per un buon inizio, secondo lui, basterebbe «non raccontare tutto di sé e dei propri gusti, delle proprie vacanze sui social network». Azioni apparentemente innocue, ma che a nostra insaputa possono renderci estremamente vulnerabili in rete.
Neanche le ultime normative europee in materia di privacy, d’altra parte, sono riuscite a migliorare in modo netto la tutela degli utenti e dei loro dati. «Il loro problema», commenta l’esperto, «è che sono composte da migliaia di pagine che nessuno legge e che molto spesso si dimostrano inapplicabili, perché sono scritte da persone che non hanno una piena comprensione del mondo reale».
Intanto, dopo il rilascio in Italia dell’app Immuni e le controversie che ne sono seguite, nel nostro Paese il tema è diventato quanto mai attuale. La famosa App, che non sembrerebbe aver avuto il successo sperato, non prevede l’obbligo di utilizzo, non si basa sulla geolocalizzazione individuale e garantisce l’anonimato degli utenti. I dati che raccoglie saranno automaticamente cancellati entro il 31 dicembre 2020.
Il tema è molto complesso: l’eterno compromesso tra tutela personale e sicurezza pubblica è un tema che resterà sempre oggetto di discussione. Anche in un domani senza più Covid-19, quando saremo liberi di tornare a stizzirci per una pubblicità sul nostro smartphone.