
Il giornalismo locale è fatto di volti conosciuti, fonti fidate e un legame diretto con il territorio. Ma il 20 febbraio 2020, anche per una redazione come quella de Il Cittadino (il Quotidiano del Lodigiano e del Sudmilano), tutto cambia. Quella sera, Cristina Vercellone – cronista esperta e radicata nella realtà lodigiana – riceve un messaggio da una fonte ospedaliera: un paziente è stato ricoverato in gravi condizioni ed è risultato positivo al tampone per il nuovo coronavirus. Un’informazione ancora in bilico tra certezza e cautela, da maneggiare con attenzione, consapevoli del rischio di “procurato allarme”. Invece è proprio da lì che prende forma la notizia che avrebbe segnato l’inizio di un’emergenza epocale.
Cristina Vercellone racconta come è arrivata in prima persona alla notizia, le cautele adottate per verificarla, la tensione, la pubblicazione con embargo e poi – con il comunicato ufficiale della Regione – la corsa contro il tempo per essere i primi a informare. Non è solo pura cronaca, ma anche il senso del mestiere: il valore dell’informazione locale in un momento storico senza precedenti. Il ruolo sociale del giornalismo, specie quando le istituzioni chiudono i canali e le storie vere si scoprono solo grazie alla fiducia, esce allo scoperto in un periodo di crisi dove dar voce ai fatti e soprattutto alle persone è la cosa più importante.
Com’è arrivata alla notizia del primo caso di Covid a Codogno? Cosa ha pensato in quel momento?
Il 20 febbraio, mentre il virus aveva già colpito duramente la Cina, insieme ad altri colleghi, eravamo impegnati a fare interviste nei bar e nei locali frequentati dalla comunità cinese per raccogliere testimonianze: c’era chi temeva di non poter tornare nel proprio Paese, si percepiva già un clima di preoccupazione. Quella sera, mentre stavo scrivendo un altro articolo in redazione (Al Cittadino, nda), mando un messaggio a un mio contatto in ospedale. Mi risponde che c’è un paziente in rianimazione risultato positivo al tampone. Era una fonte affidabile. Ho lanciato un urlo e in un attimo sono accorsi tutti alla mia scrivania.
Il direttore mi chiese subito: “Ne siamo certi?”. Prima di pubblicare la notizia, abbiamo fatto ulteriori telefonate per verificarla. Ufficialmente si attendeva l’esito del secondo tampone, ma c’erano dubbi sui tempi del contagio: si diceva che il paziente avesse cenato con colleghi rientrati dalla Cina, ma non tutto combaciava. Eravamo consapevoli del rischio di “procurato allarme”, così abbiamo scelto un titolo molto attento: “Scattato protocollo per primo caso di coronavirus”, con embargo fino all’indomani.
Si è resa subito conto dell’importanza di ciò che stava raccontando?
Sì, ero consapevole che fosse una notizia importante, ma non avrei mai potuto immaginare tutto ciò che sarebbe seguito. In realtà quello di cui non mi rendevo ancora conto era la reale gravità della situazione. Ricordo che, una volta tornata a casa, mi è arrivato sul telefono il comunicato ufficiale della Regione Lombardia che confermava il primo caso di Covid a Codogno. A quel punto ho chiamato il direttore e abbiamo tolto l’embargo all’articolo. Il giorno dopo, Il Cittadino era il primo quotidiano ad avere dato la notizia.
Che atmosfera si respirava in redazione e nel paese in quelle ore?
Il giorno dopo sarei dovuta andare a Codogno per un appuntamento personale che è saltato. Ricordo di essermi detta: “Addirittura? Salta per un caso di Covid?”. All’epoca sembrava ancora tutto esagerato. Sono andata in redazione. Il caposervizio stava già organizzando tutto, e l’atmosfera era concitata. Anche se il sabato normalmente non lavoriamo, abbiamo deciso di realizzare un’edizione speciale in uscita la domenica per seguire da vicino l’evoluzione della situazione. È stato lì che ho cominciato a percepire che qualcosa di molto più grande stava accadendo, anche se ancora non ne coglievo tutta la portata.
Come si gestisce, da giornalista, il peso di dare una notizia che poi diventa “storica”?
È stato tutto molto casuale. Più che altro, mi ha colpito quanto sia importante il lavoro di un quotidiano locale e quanto sia preziosa la rete di relazioni che si costruisce nel tempo. I rapporti con le fonti, la conoscenza del territorio, la fiducia che si crea. Mi sono resa conto di quanto conti essere presenti, sul posto, soprattutto – a posteriori – nei momenti cruciali.
Data l’emergenza, crede che il giornalismo abbia saputo raccontare bene la pandemia, in particolare nelle fasi iniziali?
All’inizio è stato davvero difficile. Le informazioni arrivavano col contagocce. Il nostro direttore aveva organizzato una call con le redazioni locali della Lombardia e tutti raccontavano la stessa cosa: le istituzioni fornivano solo i numeri, tutto era centralizzato a livello regionale. Sapere cosa accadeva davvero negli ospedali era complicato, e molto lo dovevamo a fonti interne, alle persone che ci raccontavano ciò che vedevano coi propri occhi. Nonostante questa difficoltà, credo che il giornalismo abbia saputo raccontare la pandemia, anche se non tutti allo stesso modo. A livello nazionale, purtroppo, si dava spazio a chi urlava di più o a chi pretendeva di “sapere tutto”. Noi, al Cittadino, abbiamo fatto un importante lavoro di squadra, collettivo, di rete.
Come ha influito quell’esperienza sul suo modo di fare informazione oggi? Che impatto ha avuto sulla sua vita personale e professionale?
Sul mio modo di fare informazione non ha cambiato le basi, ma sicuramente ha rafforzato la consapevolezza del nostro ruolo. Abbiamo acquisito esperienza, ci ha insegnato quanto sia fondamentale esserci, essere presenti, anche in situazioni limite. Durante la pandemia, pur potendoci muovere poco, abbiamo trovato soluzioni per far arrivare comunque i giornali nelle zone rosse. È stato un servizio importante per la comunità. La pandemia ha reso evidente il valore dell’informazione locale, il suo ruolo sociale. Le persone avevano bisogno di raccontarsi, di sfogarsi, e noi eravamo lì per dare voce a chi, in quel momento, non ne aveva altre. Questo, per me, ha fatto davvero la differenza.