Siria, sunniti e sciiti: la religione dietro il conflitto

La frattura interna all’Islam tra sunniti e sciiti si riflette sulle alleanze della guerra civile in Siria. Da un lato, l’asse della “sunna” tra Turchia e ribelli, dall’altro, la mezzaluna sciita con al vertice l’Iran che sostiene il regime di Assad.

Nel frattempo, l’area controllata della coalizione Fatah Mubin, l’ombrello sotto cui si sono riunite le milizie islamiste e filo-turche, è più che raddoppiata. L’avanzata ha colto di sorpresa Damasco e i suoi alleati, con la Russia che cerca di barcamenarsi tra Kiev e Aleppo.

Sunniti e sciiti

Sunniti e sciiti sono i due rami principali e antagonisti dell’Islam. La frattura tra le due fazioni risale al 632 d.C., anno della morte di Maometto, quando i musulmani delle prime ore si divisero sulla scelta del successore del profeta.

Gli sciiti ritenevano che l’erede sarebbe dovuto essere il cugino Alì e, di conseguenza, la sua stirpe. I sunniti, invece, nominarono il suocero Abu Bakr, non stabilendo alcuna linea di sangue. I nomi derivano proprio da questo. La fazione di Alì era chiamata Shiaat Ali, mentre la parola sunnita si rifà alla sunna, i codici di comportamento tramandati da Maometto.

 

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Nel corso del tempo, il divario tra le due fazioni è diventato sempre più profondo, fino a sfociare in vere e propri attacchi e ritorsioni. Tutti i musulmani concordano sull’esistenza di Allah come unico Dio e di Maometto come suo messaggero, condividendo anche i cinque pilastri e il Corano come testo sacro.

Ma, mentre i sunniti privilegiano la pratica degli insegnamenti di Maometto (la “Sunna”), gli sciiti vedono negli ayatollah le manifestazioni di Dio in terra e credono che il dodicesimo e ultimo imam discendente del profeta un giorno apparirà per compiere la volontà divina.

Oggi, i sunniti rappresentano circa il 90% della popolazione musulmana globale e vedono nell’Arabia Saudita il ruolo di Paese guida, posizione contesa dalla Turchia. Gli sciiti rappresentano solamente il restante 10% e alla loro guida c’è l’Iran, Stato con la più grande maggioranza sciita del mondo pari a circa 60milioni di persone.

La presenza sciita è forte anche in Iraq, Siria, Libano e Bahrein, attori che formano la cosiddetta “mezzaluna sciita”. Da considerare anche lo Yemen, dove gli sciiti della setta Zaydi rappresentano il 45% della popolazione e, non a caso, ne fanno parte anche gli Houthi sostenuti dall’Iran.

Siria e Turchia: sunniti e alleati

Questo odio atavico è una delle spiegazioni della violenza sunnita-sciita in Siria e della generale partita per l’influenza nella regione tra Arabia Saudita e Iran.

La maggioranza dei musulmani siriani (74%), infatti, è sunnita, mentre gli sciiti sono solamente il restante 13%. In particolare, il maggior gruppo sciita è costituito dagli alauiti, corrente di cui è parte anche la famiglia Assad che dal 1970 governa sulla Siria.

Tra i militanti sunniti il regime c’è sempre stato astio. I rapporti sono particolarmente tesi con i Fratelli Musulmani, gruppo sunnita nato in Egitto della cui sfera di influenza fa parte anche Erdogan con il suo partito AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo).

Nel 1982, l’allora presidente Rifaat al Assad, zio di Bashar, strinse sotto assedio la città di Hama che, guidata dalla fratellanza musulmana aveva tentato di ribellarsi al regime. Un assedio di 27 giorni terminato in una carneficina che ha causato tra i 20mila e i 50mila morti.

Il padre e predecessore di Bashar al-Assad, Rifaat al-Assad.

Ecco allora che l’alleanza tra Turchia e forze ribelli assume un significato ben preciso. Erdogan vuole proiettare Ankara verso un ruolo guida nel mondo Arabo e la vicinanza religiosa accompagna le mire geopolitiche. Discorso che si estende anche al sostegno dell’Iran e di Hezbollah al regime di Assad durante il conflitto.

Al tempo stesso, la prospettiva di un cambio di regime a Damasco, nonostante sia gradita, per Erdogan potrebbe essere anche un rischio. Il gruppo Hts, ex affiliato di al Qaeda, è guidato da Muhammad al-Jolani allievo di personalità come al-Zarqawi, leader di al-Qaeda in Iraq, e Abu Bakr al-Baghdadi, califfo dello Stato Islamico.

Negli ultimi tempi, i comunicati del leader jihadista continuano ad avere toni moderati, soprattutto nei confronti di minoranze etniche e religiose. Jolani però ha la fama di aver impiegato metodi brutali, di aver bruciato e razziato villaggi e comunità. Per poi professarsi ora aperto e moderato.

Secondo molti analisti, è possibile che Erdogan abbia dato luce verde ai ribelli per cominciare l’attacco ma che non si aspettasse che il regime lasciasse così tanto spazio ai jihadisti e che non veda proprio di buon occhio lo strapotere degli ex-affiliati di al-Qaeda.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan.
Le ultime dal campo

Le notizie dal campo arrivano in maniera confusa. Negli scorsi giorni sono rimbalzate indiscrezioni su un possibile colpo di Stato, con Assad fuggito in Russia e il capo dei servizi di sicurezza, Hussam Luqa, pronto a prendere il suo posto. Ipotesi crollata dopo la diffusione delle foto dell’incontro del presidente con il ministro degli esteri iraniano a Damasco.

Dal lato dei ribelli, invece, ieri con un post su X il governo libanese ha annunciato la morte in un bombardamento russo di Abu Muhammad al Julani, regista dell’offensiva e leader del gruppo Hayat Tahrir al Sham. Notizia non ancora confermata.

Nella confusione, l’avanzata di Fatah Mubin verso sud sembra rallentare. I ribelli sono ora impantanati nella parte più complessa: il consolidamento delle zone liberate e soprattutto di Aleppo. La città, pur non essendo la capitale, è quel che resta dell’economia siriana e necessita approvvigionamenti, gasolio e sicurezza.

A est, ha fatto il suo ingresso in scena anche l’Esercito nazionale siriano (Ens) che unisce le milizie filo-turche. I militari hanno preso il controllo di Tal Rifaat, città amministrata dai curdi-siriani, sostenuti dagli USA.

Alcuni militanti di Hayat Tahrir al-Sham.

Dal lato del governo, l’esercito di Assad ha lanciato un primo contrattacco, rafforzando le linee difensive. A supporto, è intervenuta Mosca. I raid del Cremlino avrebbero ucciso almeno 12 persone nel centro di Aleppo mentre i Caschi Bianchi, la protezione civile siriana, parlano di 4 vittime e 54 feriti a Idlib.

L’avanzata dei ribelli ha colto di sorpresa anche Putin che già accusa l’occidente di aver fomentato la ribellione per distogliere Mosca dal fronte ucraino. Di risposta, lo Zar ha licenziato Sergei Kisel, il comandante delle operazioni in Siria, per non aver saputo bloccare l’offensiva. Il militare era stato inviato in Siria proprio come punizione per i suoi fallimenti a Kharkiv, in Ucraina.

Ettore Saladini

Laureato in Relazioni Internazionali e Sicurezza alla LUISS di Roma con un semestre in Israele alla Reichman University (Tel Aviv). Mi interesso di politica internazionale, terrorismo, politica interna e cultura. Nel mio Gotha ci sono gli Strokes, Calcutta, Martin Eden, Conrad, Moshe Dayan, Jung e Wes Anderson.

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