La storia si ripete. Settimana d’inferno negli USA dopo la morte di Floyd

«Non uccidermi, per favore. Non riesco a respirare». Sono le ultime parole di George Floyd prima di morire soffocato dopo l’intervento del poliziotto americano Derek Chauvin. Floyd, un afroamericano di 46 anni era stato arrestato dopo la denuncia di un dipendente di un negozio, che lo accusava di aver comprato un pacchetto di sigarette con una banconota da 20 dollari falsa. L’uomo viene individuato e bloccato dalla polizia di Minneapolis, Minnesota. Nella volante ci sono 4 agenti, Thomas Lane, Alexander Kueng, Tou Thao, già sotto accusa nel 2017 per uso eccessivo della forza e Derek Chauvin, ufficiale del dipartimento di polizia di Minneapolis con 18 denunce a suo carico e diversi coinvolgimenti in sparatorie della polizia, di cui una fatale per un uomo.

Floyd invece, padre di due figlie, si era trasferito in Minnesota nel 2014 dopo essere stato condannato a cinque anni di prigione per rapina aggravata. Residente a St. Louis Park, lavorava nella sicurezza di un ristorante anche se aveva perso il lavoro durante la pandemia di Covid-19. Ed è proprio durante questi servizi di sorveglianza che Floyd avrebbe conosciuto Chauvin, secondo quanto dichiarato da Maya Santamaria, ex proprietaria della discoteca El Nuevo Rodeo. Il poliziotto infatti aveva lavorato in quel locale per 17 anni, durante i quali era stato spesso ripreso per il modo violento in cui trattava i clienti. Floyd invece era di servizio saltuariamente nella discoteca, poco più di una dozzina di eventi.

8 minuti e 46 secondi

8 minuti e 46 secondi. Questo il tempo che Floyd avrebbe passato con il collo schiacciato dal peso della gamba del poliziotto. A nulla sono valsi i suoi lamenti né quelli dei passanti. L’uomo perde conoscenza mentre gli agenti aspettano i rinforzi. Chauvin non se ne accorge e all’arrivo delle altre volanti, 17 minuti più tardi, è già morto. La scena diventa virale grazie a diversi video dei passanti postati in rete. Le immagini fanno il giro del mondo. Il sindaco di Minneapolis Jacob Frey chiede il licenziamento dei 4 poliziotti e proclama lo stato di emergenza per 72 ore, mentre Trump lo attacca a colpi di tweet per la sua presunta debolezza nella gestione della situazione. Tim Walz, governatore del Minnesota parla di «omicidio» e gli agenti vengono licenziati. È l’inizio delle proteste che prenderanno piede in oltre 140 città americane. Alcune sono pacifiche, altre più violente e represse con la forza della polizia. Negli Stati Uniti, già in ginocchio per il coronavirus, scoppia l’inferno.

A Minneapolis viene incendiato il commissariato

Le manifestazioni iniziano a farsi più violente nella serata di giovedì 28 maggio quando, a Minneapolis, il commissariato dove lavoravano i poliziotti coinvolti viene dato alle fiamme. La recinzione, eretta attorno alla struttura, viene presa d’assalto da migliaia di manifestanti, alcuni dei quali, riuscendo ad entrare negli uffici, appiccano il fuoco da dentro.

Nel frattempo, la polizia arresta in diretta il giornalista della Cnn Omar Jimenez, mentre si trovava per un servizio sul luogo delle manifestazioni. Tutta la troupe viene amanettata, a riportarlo lo stesso canale televisivo, che ne ha annunciato poi anche il rilascio seguito dalle scuse del governatore.

Sorte diversa per l’agente Derek Chauvin, accusato di omicidio di terzo grado, ovvero omicidio colposo. Contro l’accusa risponde il popolo di twitter che, con l’hashatag #raisethegrade chiede di accusare il poliziotto di omicidio di secondo grado ovvero omicidio volontario. Dall’autopsia però, risulterebbe che «non ci sono elementi fisici che supportano una diagnosi di asfissia traumatica o di strangolamento», come riporta Agi, ma che la morte potrebbe essere stata dovuta da un insieme di effetti combianti, quali il blocco a terra della polizia, patologie pregresse e qualche sostanza tossica che aveva in corpo. La famiglia di Floyd ha chiesto però una autopsia indipendente in quanto, come ha dichiarato il loro legale, non sembrerebbero fidarsi delle autorità di Minneapolis.

In Minnesota il terzo grado è riferito ai casi di omicidio dove, come riporta Fanpage, si è verificata una “perversa indifferenza alla vita”. In questo caso l’agente rischierebbe un massimo di pena di 25 anni.

La risposta di Trump su Twitter

La risposta del Presidente Donald Trump non si è lasciata attendere ed è arrivata tramite il solito tweet. Fin dai primi istanti si era schierato dalla parte della giustizia, arrivando ad accusare Minneapolis di “totale mancanza di leadership“. In risposta il sindaco della città Jack Dorsey ha imposto il coprifuoco iniziato ancora venerdì 29 sera.

Tuttavia, a causa delle numerose rivolte, il Presidente non si è trattenuto, aggiungendo: «Se ci sono difficoltà, assumeremo il controllo, ma quando parte il saccheggio, si inizia a sparare». In un periodo di tensioni tra Trump e la piattaforma Twitter, accusata dal Presidente per aver oscurato alcuni tweet per fake news, Jack Dorsey, fondatore del social, ha dichiarato in una nota: «Questo tweet ha violato le regole di Twitter sulla esaltazione della violenza. Tuttavia, Twitter ha stabilito che potrebbe essere di interesse pubblico che il tweet rimanga accessibile».

Ma non è tutto. Visti gli ultimi andamenti nel Paese, il Presidente ha ribadito in un altro tweet: «Attraversare le linee statali per incitare la violenza è un crimine federale! I governatori e i sindaci liberali devono diventare MOLTO più severi o il governo federale interverrà e farà ciò che deve essere fatto, e ciò include l’uso del potere illimitato dei nostri militari e molti arresti», chiudendo con un «Grazie!» alla popolazione.

Black Lives Matters, manifestazioni in tutta America

Col passare delle ore le proteste hanno raggiunto poi diverse città americane, trovando un grande seguito anche sui social e in varie capitali mondiali. A Detroit, un ragazzo di 19 anni è rimasto vittima durante un raduno di manifestanti a Cadillac Square, tra venerdì 29 e sabato 30 maggio. La sparatoria sarebbe stata ripresa da un reporter del Detroit News in diretta Facebook. In Oaklanda (California) invece, un agente del Servizio di protezione federale è stato ucciso, mentre un suo collega è rimasto ferito.

Un poliziotto a Austin usa lo spray al pepe su un manifestante. @NewYorkTimes

Addirittura domenica 31 maggio, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, le luci della Casa Bianca si sono spente, mentre Donald Trump e la sua famiglia sono stati portati in un bunker sotterraneo per la loro sicurezza. Ad alimentare le paure le numerevoli rivolte e incendi appiccati davanti alla residenza del Presidente. Ad oggi si contano un centinaio di arresti mentre i movimenti per ottenere giustizia per la morte di Floyd hanno raggiunto ogni angolo del Paese.

I disordini davanti la Casa Bianca. @NewYorkTimes

Si contano anche delle vittime. A Louisville, in Kentucky, un uomo ieri notte è stato ucciso nel tentativo delle autorità di eliminare la folla. In California invece, alcuni negozi tra Santa Monica e Long Beach sono stati presi d’assalto mentre un ufficiale della polizia ha subito un colpo di arma da fuoco. Ma non solo. A Los Angeles, il New York Times, segnala un SUV che si sarebbe spinto contro un gruppo di manifestanti facendo cadere due persone. A Boston invece sempre un SUV della polizia è stato dato alle fiamme mentre girano immagini di auto imbrattate da scritte volgari e dure contro gli organi di giustizia americani. In Iowa invece, da quanto è stato dichiarato dalla polizia, sono state uccise almeno due persone in alcune rivolte a Davenport, mentre un agente è rimasto ferito in una serie di sparatorie.

Cortei e sit-in sono arrivati anche nelle città di Chicago e San Francisco, mentre a New York la polizia ha messo in manette almeno 72 persone, tra cui anche la figlia del sindaco de Blasio unitasi alle proteste. Ma non in tutto il Paese le rivolte hanno portato a saccheggi e danneggiato la città. Dalle ultime notizie riportate il primo giugno, si notano infatti alcuni segni di solidarietà da parte della polizia. Lo sceriffo del Michigan si è unito infatti alla protesta abbracciando i manifestanti.

Chi sono gli Antifa

Domenica 31 maggio su Twitter, Trump scrive che la sua amministrazione dichiarerà gli ANTIFA un gruppo terroristico per via del loro coinvolgimento nelle proteste. Si scatena il tam-tam sui social. In molti si dichiarano ANTIFA senza però capire il significato reale della parola. Pur essendo una contrazione della parola anti fascist, negli Stati Uniti la parola ANTIFA viene associata non solo al fascismo come in Occidente, ma si riferisce a un gruppo di attivisti, organizzato a livello locale e poco conosciuti nel mondo. Nato in contrasto ai movimenti di estrema destra, il movimento si oppone a qualsiasi forma di autoritarismo, razzismo, sessismo e xenofobia, ma nel farlo spesso fa ricorso alla violenza durante le manifestazioni. Il loro modo di agire è paragonabile a quelli che in Europa chiamiamo «black bloc».

L’America spaccata con le elezioni alle porte

Mentre i disordini invadono le strade, le polemiche travolgono anche Donald Trump. Inizialmente il presidente condanna quanto accaduto a George Floyd, ma quando le proteste si accendono invia la Guardia Nazionale e il suo atteggiamento si fa più duro. Trump accusa i democratici di non essere abbastanza duri e si scaglia contro gli anarchici in piazza, attribuendo la colpa dei disordini ai radicali di sinistra. I suoi tweet però, al veleno come sempre, scatenano l’ira dei democratici ma non solo: «Non sono costruttivi» dichiara Tim Scotte, senatore della Carolina del Sud e unico repubblicano nero al Senato in un’intervista a Fox News Sunday. Anche alcuni collaboratori del presidente hanno dei dubbi: la forza comunicativa di Trump fa aumentare i dissapori invece di calmare le acque. Il presidente è ovunque e già durante l’emergenza sanitaria, per la quale viene ampliamente criticato, in molti pensano che sia sovraesposto. Il presidente infatti è tutti i giorni in TV per i briefing quotidiani sulla pandemia. Il contesto in cui gli Stati Uniti si avvicinano alle presidenziali di novembre è infuocato. Trump divide sempre, quando parla o quando lancia uno dei suoi tweet.

Gli occhi del mondo guardano agli Stati Uniti e vedono rabbia, violenza, centinaia di migliaia di morti per il coronavirus, che aveva già fatto riemergere tra l’altro nella gestione sanitarie le profonde divisioni all’interno della società. Che ora tornano ancora più forti con le proteste per la violenza sugli afroamericani. Intanto Donald tira dritto, e c’è chi tra i repubblicani pensa che l’escalation di violenza potrà dare vigore ai piani sulla sicurezza che il presidente ha avviato dopo la campagna del 2016. La sensazione però è che la situazione nel complesso sia sfuggita di mano a Trump, con il rischio che le persone siano stanche dei suoi atteggiamenti.

La storia si ripete. I precedenti

Le proteste dei manifestanti contro la violenza della polizia sugli afroamericani sono purtroppo una triste realtà della storia americana. Una pagina di storia ricorrente quella che si è scritta a Minneapolis, ma le reazioni dei presidenti non sempre sono state le stesse.

Tornando indietro al 1991, quando degli agenti di polizia di Los Angeles presero a manganellate Rodney King fino a ucciderlo, l’allora presidente George Bush si scagliò contro gli ufficiali, chiedendo la fine della violenza gratuita: «I funzionari delle forze dell’ordine non possono posizionarsi al di sopra della legge che hanno giurato di difendere» dichiarò Bush. I quattro poliziotti coinvolti furono accusati di aggressione ma l’anno successivo vennero assolti, una decisione che diede il via a cinque giorni di fuoco a Los Angeles. La risposta di Bush non tardò ad arrivare: «La distruzione sfrenata della vita e della proprietà non è una legittima espressione di indignazione per l’ingiustizia. È di per sé un’ingiustizia» le parole del presidente. Durante l’amministrazione di Bill Clinton invece, la violenza della polizia sugli afroamericani torna a riempire le pagine di cronache con la morte di Amadou Diallo, ucciso da quattro poliziotti di New York City. Clinton seguì gli sviluppi della vicenda – che portò all’assoluzione degli agenti – rimanendo quasi completamente in silenzio dichiarandosi «turbato dai continui rapporti di profilazione razziale che hanno scosso la fiducia di alcune comunità nella polizia che è lì per proteggerle». Dopo il verdetto della giuria, Clinton si espresse così: «So che la maggior parte della gente in America di tutte le razze crede che se fosse stato un giovane bianco in un quartiere tutto bianco, probabilmente non sarebbe successo».

Anche durante la presidenza di Obama non mancarono episodi di violenza da parte della polizia. Era il 2014 e quanto accadde può essere paragonato alla morte di Floyd, anche nelle dinamiche. Un ufficiale della polizia di New York City uccise Eric Garner soffocandolo al collo, mentre l’uomo ripeteva: «I can’t breathe». Non riesco a respirare, parole, come quelle pronunciate da Floyd, che divennero lo slogan dei manifestanti.

Obama, dopo il rifiuto della giuria di accusare il poliziotto coinvolto dichiarò: «Quando qualcuno in questo paese non viene trattato allo stesso modo secondo la legge, questo è un problema». Meno di un mese dopo poi, un altro afroamericano, il diciottenne Michael Brown fu ucciso da un ufficiale di polizia, scatenando le proteste, Obama riconobbe la gravità della situazione:  «Abbiamo fatto enormi progressi nelle relazioni razziali nel corso degli ultimi decenni. E negare quel progresso penso sia negare la capacità di cambiamento dell’America. Ma è anche vero che ci sono ancora problemi, che le comunità di colore non stanno risolvendo». Si accese ancora di più il dibattito tra chi protestava contro la violenza sulle minoranze e chi per quella sulla polizia, soprattutto dopo l’uccisione della polizia di due uomini, nel luglio del 2016, sempre in Minnesota. Con l’elezione di Trump gli episodi si sono riproposti e il presidente ha commentato raramente. Dopo la morte di Floyd sono arrivati i primi tweet, con la promessa di fare giustizia. 

Ma l’evolversi della situazione ha cambiato i toni di Trump, che dopo l’incendio del commissariato si è espresso duramente, ancora su Twitter. Ed è qui che arriva il tweet segnalato dal social network: il Presidente si scaglia contro la mancanza di leadership del sindaco di Minneapolis e attacca i manifestanti, accusati di disonorare in questo modo il ricordo di George Floyd. «Quando parte il saccheggio, si inizia a sparare». Il presidente aggiusta il tiro, definendo il suo tweet una conseguenza naturale delle rivolte e non una minaccia da parte delle autorità. Ma le sue parole pesano come macigni e le sparatorie iniziano davvero, come a Detroit.

Intanto i sondaggi in vista delle presidenziali di novembre – da prendere con le pinze visto quanto accaduto nel 2016 con Hillary Clinton – danno Joe Biden in vantaggio, addirittura di 8 punti come nel caso della rivelazione effettuata dalla rete conservatrice Fox News. I problemi in America rimangono sempre gli stessi. La discriminazione verso le minoranze, venuta fuori prima con la pandemia che ha colpito maggiormente gli afroamericani o i meno abbienti, e con la morte di Floyd poi, sarà inevitabilmente l’argomento su cui i due sfidanti dovranno convincere gli elettori. Salute e sicurezza, mentre le città vanno a fuoco.

Nicolo Rubeis

Giornalista praticante con una forte passione per la politica, soprattutto se estera, per lo sport e per l'innovazione. Le sfide che attendono la nostra professione sono ardue ma la grande rivoluzione digitale ci impone riflessioni più ampie. Senza mai perdere di vista la qualità della scrittura e delle fonti.

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