È il “No” a trionfare nel plebiscito costituzionale in Cile. Domenica 17 dicembre nel Paese latinoamericano l’84% della popolazione ha espresso il proprio parere sul quesito di riforma della Magna Carta nazionale. E il 55,76% dei votanti ha bocciato la proposta dell’Assemblea costituente, occupata in prevalenza da politici appartenenti a partiti di destra. Rimarrà, dunque, in vigore il testo normativo redatto nel 1980, sotto la dittatura di Augusto Pinochet.
Si tratta del secondo rechazo nel giro di un anno. Già nel settembre del 2022 i cileni erano stati chiamati alle urne sulla questione costituzionale. In quella circostanza, la proposta dell’Assemblea – a maggioranza progressista – si era infranta contro un muro di circa 12 milioni di schede contrarie, circa il 62% del totale.
«Il processo costituzionale è chiuso, le emergenze sono altre», lo ha annunciato all’indomani del plebiscito il Presidente del Cile, Gabriel Boric. Almeno durante il suo mandato. Dopo quattro anni di dibattito attorno a questo tema, il Paese volterà pagina. «Il processo non è riuscito a incanalare le speranze di avere una nuova Costituzione scritta per tutti», ha aggiunto.
Fallito il sorpasso a destra
Non è bastata l’approvazione di quasi 7 milioni di cileni. La nuova versione della Costituzione non prenderà il posto della precedente. Cestinata, dunque, la proposta normativa del Partito Repubblicano, guidato dall’ultraconservatore José Antonio Kast. Che ha ammesso: «Non siamo riusciti a convincere la popolazione che questa era una migliore Costituzione di quella attuale».
Il testo bocciato dai cittadini era stato ultimato a novembre dall’Assemblea, dopo quasi otto mesi dal suo concepimento. Dei 50 membri eletti per redigere la nuova Magna Carta, ben 23 appartenevano al Partito Repubblicano. Mentre la coalizione di sinistra “Unità per il Cile” contava solo 16 seggi.
Come affermato dalla giornalista Elena Basso, il nuovo codice avrebbe avuto una chiara impronta conservatrice e «sarebbe stato un retrocesso incredibile per quanto riguarda i diritti dei cittadini, i diritti dell’ambiente, i diritti delle minoranze, dei popoli originari e delle donne; oltre a ciò, avrebbe privatizzato ancora di più la società cilena per quanto riguarda le scuole, le pensioni e perfino le risorse ambientali». A pesare nel criterio di scelta dei cittadini, dunque, la prospettiva di una radicalizzazione neoliberale nel Paese.
Un processo lungo ma senza risultati
Quello della privatizzazione su scala nazionale, tuttavia, non è stato l’unico fattore condizionante per molti cileni. Secondo alcuni rilevamenti fatti a ridosso della chiamata alle urne dalla fondazione Paz Ciudadana, il 30% della popolazione si è detta stanca o disinteressata nei confronti di questo processo costituzionale. Che si sta trascinando dal 2019 senza esiti degni di nota.
Il processo costituzionale, infatti, fu innescato da un fatto occorso nell’ottobre di quell’anno. Si tratta dell’estallido social, un movimento di protesta popolare sorto nella capitale, Santiago. Ad accendere la miccia fu l’aumento del prezzo del biglietto della metro di qualche decina di centesimi di pesos. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Un vaso sociale ormai saturo di insofferenza verso un sistema economico a forte trazione privatistica, che trovava solida copertura nella Costituzione promulgata dal dittatore Pinochet negli anni ’80.
Molti cittadini capirono, quindi, che per sovvertire il sistema occorreva mettere mano a quel testo. E così nel 2020 fu indetto un referendum per cambiare la Costituzione. Il 78% dei votanti si dichiarò a favore di una riscrittura. In Cile le cose sembravano prendere finalmente una svolta positiva.
Col vento in poppa, il neoeletto Gabriel Boric, il presidente cileno più a sinistra dai tempi di Salvador Allende, diede seguito al processo di redazione. Nel 2021 fu democraticamente eletta un’Assemblea costituente: il gruppo, a maggioranza progressista e con una forte presenza femminile, fece ben sperare gli elettori di sinistra nel Paese. Il 4 settembre del 2022 si tenne il plebiscito per la popolazione. L’esito fu sorprendente: il 62% delle schede scrutinate condannò al fallimento la nuova Costituzione. Una sonora derrota per l’esecutivo e per le speranze di cambiamento di molti cileni.
Un record decisamente poco vantabile
La sconfitta, però, non fu l’ultima parola. Dopo qualche mese, Boric incaricò il parlamento di eleggere una commissione di esperti per dare vita a un nuovo testo. Questa volta, però, la sinistra aveva perso il consenso ottenuto nell’anno precedente. Un drastico ribaltamento nell’opinione pubblica premiò i conservatori di Kast, superiori per numero in fase di scrittura della Costituzione rispetto ai seguaci di Boric.
Ancora una volta, la nuova proposta non resse il confronto con le normative di Pinochet. Una doppietta nel giro di un anno che ha fatto del Cile un caso unico nella storia. A notarlo è Daniel Zovatto, direttore regionale per l’America Latina e i Caraibi dell’Istituto Internazionale per la Democrazie e l’Assistenza Elettorale, che ha commentato: «Due tentativi falliti e due testi respinti: uno troppo a sinistra e uno troppo a destra, un fatto inedito nella storia del costituzionalismo comparato mondiale».
Come osservato anche dal quotidiano spagnolo ABC, questi due insuccessi democratici sono sintomo di una scarsa capacità della politica di intercettare i bisogni delle persone. Entrambe le proposte possedevano una forte carica identitaria, verso sinistra e verso destra. Si trattava di due testi estremi, polarizzati. Una radicalizzazione che ha perso di vista le persone a cui era rivolta. Che si sono sentite legittimate a non prendere in considerazione le riforme proposte e a dare un “voto di punizione” alla classe dirigente del Paese.
Di questa idea è Isabel Castillo, ricercatrice del Centro di Studi del Conflitto e Coesione Sociale: «Uno scenario dove tutti fossero stati d’accordo, difendendo la stessa proposta, evidentemente sarebbe stato diverso. Questa è stata una punizione per la mancanza di trasversalità».
Di Alessandro Dowlatshahi