Il rumore incessante delle sirene delle ambulanze, unito a quello delle grida strazianti davanti a una colonna di fumo nero. Dopo oltre 30 anni, l’immagine dell’attentato dell’ETA in avenida Meridiana, a Barcellona, resta un ricordo nitido nella memoria spagnola. Quel 19 giugno del 1987 un’autobomba esplose in un centro commerciale della catena Hipercor. Il bilancio della strage fu funesto: 21 morti e 45 feriti.
Si considera oggi come l’attentato più sanguinario della storia dell’organizzazione terroristica basca. Eppure, rappresentò una svolta nell’opinione pubblica, l’ennesima occasione per il governo spagnolo per creare intorno a sé un clima favorevole all’appoggio popolare. Quell’atto terroristico, volto a intimidire l’allora premier socialista Felipe González, portò a un aumento dei sostenitori della guerra sucia, la cosiddetta ‘guerra sporca’ combattuta tra paramilitari e soldati dell’ETA.
Così gli attacchi perpetrati dai Gal (gruppi antiterroristi di liberazione) contro i gruppi nazionalisti baschi divennero una giustificazione credibile per difendere lo Stato dalla minaccia indipendentista. Da lì a poco, il pueblo si convinse che l’ETA non era nient’altro che un schieramento politico armato composto da fanatici di odio e potere. Dunque, perché prima di allora, l’organizzazione godeva di ampi consensi tra la popolazione? Sia il terrorismo marxista dell’ETA che il Partito Nazionalista Vasco (PNV) volevano togliere Franco dal potere. In altre parole, eliminare la dittatura per instaurare una nuova democrazia.
Podemos, indipendentisti e Vox
A distanza di una decade, oggi a contrapporsi al potere della corona, non sono solo i nazionalisti baschi, bensì anche i separatisti catalani. In Catalogna, sono due i principali partiti che issano in alto la bandiera indipendentista. Si tratta di Esquerra Repubblicana e Convergencia. Come riporta la giornalista e storica Cayetana Álvarez de Toledo nel saggio ‘El estallido del populismo’: in Spagna, il nazionalismo non è mai diventato monopolio della destra. Nell’ultimo decennio, si è istaurato un catalanismo rivoluzionario, fautore di principi antiborghesi e antisistema. A giudizio di Álvarez de Toledo: «il nazionalismo è la forma di populismo più letale». Spesso definito come uno stile politico gassoso che prende forma nelle grandi piazze mentre si appella al popolo per contrastare quella che lo stesso leader di Podemos ha descritto come “lucchetto”. In sintesi: la Costituzione.
I casi di corruzione, riscontrati durante la transizione -sia nel partito socialista che in quello popolare- hanno contribuito a divampare l’ondata populista spagnola. Eppure, non rappresentano l’unica ragione per la quale i cittadini hanno rivisto i propri voti elettorali. L’allora premier José Luis Rodríguez Zapatero legalizzò il braccio politico di ETA, senza condannare gli assassini né esigere la consegna delle armi. Molti lo interpretarono come un modo per danneggiare la memoria storica. Una strategia che aprì il passo al nazionalismo catalano e all’irruzione di Podemos.
Oggi, al governo, Pablo Iglesias si presenta come il leader di un partito difensore del «diritto a decidere». In altre parole, a favore dell’autodeterminazione. C’è dunque una somiglianza con le idee dei separatisti. «Podemos e gli indipendentisti utilizzano l’irrazionalità, appellano ai sentimenti, promuovono il vittimismo – scrive Álvarez de Toledo in ‘Ellos y nosotros: el populismo en España’– il nazionalismo cerca l’indipendenza, Podemos l’assalto al potere. I loro obiettivi sono convergenti perché dipendono dalla distruzione del sistema democratico».
Così, risulta chiaro intendere che l’ordine democratico liberale spagnolo è minacciato da varie forze populiste. Da una parte, quelle dei nazionalismi baschi e catalani. Dall’altra, quelle del partito di estrema sinistra Podemos, guidato da Pablo Iglesias, nonché vicepresidente del governo e ministro dei Diritti Sociali e Agenda 2030 dallo scorso gennaio.
Oggi il socialismo spagnolo è inclinato verso il populismo
Álvaro Vargas Llosa
«Le due minacce sono gravi, però ne esiste una terza – confessa in un’intervista a MasterX lo scrittore Álvaro Vargas Llosa – il fatto che il socialismo spagnolo che contribuì alla transizione democratica e al successo della Spagna durante quattro decenni, è adesso inclinato verso il populismo, quasi alla pari di Podemos». Secondo Vargas Llosa, la combinazione di questi fattori fa sì che il modello economico spagnolo sia sempre più terzomondista. «La convivenza pacifica si trasforma gradualmente in una tensione perpetua e in un avvelenamento del clima politico – continua lo scrittore–arrivando persino ad annacquare la leadership della Spagna in Europa».
PSOE: il tramonto del socialismo
A concordare con l’opinione di Vargas Llosa è il professore di storia contemporanea dell’Università IULM di Milano, Massimo De Giuseppe. «Oltre al populismo di estrema destra di Vox, partito élite dove i leader si autorappresentano come ideali portavoce del popolo, notiamo del populismo anche nel Partito Socialista Operaio Spagnolo – spiega De Giuseppe– perché il PSOE sta abbandonando la tradizione della socialdemocrazia classica tedesca alla quale si era legato originariamente il premier González».
Così come nel Partito Popolare. «Anche il PP ha usato degli elementi molto populisti soprattutto nel richiamo alla tradizione cattolica più intransigente», continua. Secondo il docente, il populismo ha una presenza significativa nel dibattito pubblico spagnolo, nonostante la Spagna sia oggi un Paese molto più secolarizzato rispetto allo scorso decennio.
«L’aspetto più significativo del populismo spagnolo è la sua relazione con il separatismo. Podemos sorge dall’antiglobalismo e dal post-marxismo – esorta Javier Redondo, politologo editorialista de El Mundo e professore all’Universidad Francisco de Vitoria – Podemos aspira all’egemonia della sinistra, trascinando il PSOE verso il suo progetto di colonizzazione dello Stato e di “desconsolidazione” della democrazia». Dunque, rappresenta una forza di rottura che «si nutre del populismo latinoamericano: come il chavismo e il peronismo».
La tirannia chavista
Eppure dall’altra parte dell’oceano, il populismo ha assunto diverse forme. In Venezuela, Hugo Chávez venne considerato un socialista, un populista dall’innegabile carisma. Come scrive Alberto Garrido nel saggio ‘Documentos de la Revolución Bolivariana’, Chávez era membro di una loggia miliare clandestina e desiderava prendere il podere con le armi. Di fatto, nel 1992, invece di essere castigato per il precedente golpe ricevette l’indulto e poté candidarsi alle elezioni del 6 dicembre del 1998. Quelle elezioni, Chávez le vinse. «Da militare golpista a demagogo consumato –scrive la leader del partito di opposizione Vente Venezuela María Corina Machado nel testo ‘la tiranía chavista y la decisión de vencerla’– Chávez si affannava a dividere la popolazione tra pueblo e ‘cupole marce’, mentre minacciava di spazzare via i corrotti e friggere nell’olio le teste degli adecos».
A tal proposito, il leader fortemente sostenuto da Fidel Castro, radunava intorno a sé militari della sinistra rivoluzionaria e sostenitori, sia civili che militari, del “bolivarismo-militarismo”. Tradotto: era a capo di una coalizione eterogenea e multi-classista. Da autentico populista, Chávez parlava alla folla con discorsi demagogici e diffondeva messaggi semplici e chiari per attirare le masse. «Chávez sapeva molto bene che l’opinione pubblica è molto più determinata a condannare una tirannia di destra rispetto a una di sinistra – spiega Corina Machado – le fascette di “sinistra”, “socialista”, “progressista”, “antimperialista”, “popolare”, “indigenista”, “terzomondista” e persino “castrista” fanno guadagnare appoggi importanti».
Ma la corruzione diventa parte integrante del sistema venezuelano. Chávez si dimostra un populista classico, nemico dell’élite corrotte. Cambia la Costituzione per ripresentare la sua candidatura senza vincoli di mandato. E ancora: elimina il Senato, forma un Parlamento unicamerale, crea la figura di un vicepresidente della Repubblica nominato direttamente dal Presidente e introduce la possibilità di decidere su diverse materie con un referendum popolare. L’obiettivo: superare il concetto di «democrazia rappresentativa» per crearne una «partecipativa e con ruolo da protagonista». In sintesi, Chávez riesce ad approfittare dei consensi per ampliare i suoi poteri e creare un regime totalitario.
Eppure, alla fine, il chavismo non punta solo il dito contro le ‘cupole marce’ delle classi dirigenti bensì si oppone anche a imprenditoria, stampa, classe media, università e sindacati. Nel bersaglio dell’ex presidente del Venezuela ci sono i «nemici internazionali». Così il caudillo difende il pueblo dagli attacchi esterni. Ma nessun cittadino può ancora oggi dimenticare la sua visita a Saddam Hussein, dopo la sconfitta nella guerra del Golfo. Quell’incontro testimoniò le intenzioni del capo venezuelano di appoggiare sia estremisti che antiliberali.
Maduro contro Guaidó: regime contro democrazia
Neanche il cancro limitò la tirannia del presidente bolivariano. Prima di morire, Chávez scelse Nicolás Maduro come suo successore. Da lì a poco, il Venezuela è diventato teatro di miserie, corruzioni, povertà e mafie. «L’attuale presidente del Paese, Nicolás Maduro, ha inaugurato l’epoca del post-populismo, in quanto esercita una sorta di controllo autoritario sul territorio», spiega il professore De Giuseppe. Attualmente, la dittatura ha il controllo totale dell’esercito e può contare su un sistema di intelligenza che ostacola l’eventuale nascita di un movimento capace di indebolire l’esecutivo.
Nonostante la vittoria democratica alle elezioni parlamentari del 2015, il Venezuela resta un Paese dominato dall’omertà chavista. Il regime di Maduro obbliga la popolazione all’esilio e nega nuove elezioni per consolidare il potere totalitario. «Sono molto pessimista sul Venezuela – confessa Vargas Llosa – Juan Guaidó da fuori, ha fatto sì che si potesse creare una forza di opposizione ma non si può fare altro. Sono stati commessi errori, come quello di negoziare con la dittatura quando era ancora molto forte».
Era il 23 gennaio del 2019 quando il capo dell’assemblea nazionale di Caracas si era proclamato presidente ad interim del Venezuela. Il portavoce del «Sì, se puede», ha sfidato il potere in attesa di nuove elezioni. A favore di Juan Guaidó, si schierarono più di 50 Stati. Tra questi, si distinsero Paesi populisti latinoamericani come Argentina, Messico e Brasile. Anche il premier Pedro Sánchez scelse allora di sostenere il presidente auto-proclamato. Ma Pablo Iglesias non era d’accordo. «Non si trova una soluzione con colpi di Stato, né tirando bombe Molotov alla polizia – ha ribadito in un’intervista con Telecinco il leader di Podemos– l’importante è che ci sia dialogo tra tutti gli attori politici».
Dialogo invisibile. Oltre a disprezzare Guaidó, il leader di Podemos ha approvato il colpo parlamentario di Nicolás Maduro. Il motivo è semplice: Pablo Iglesias nasconde un legame stretto con Hugo Chávez poiché lavorò per lui come assessore del regime. Ma non è tutto: nel suo curriculum, si definiva «responsabile di analisi strategiche della presidenza del Venezuela con la fondazione Centro di studi politici e sociali». Poi, con la profonda crisi venezuelana, il leader di Podemos ha cambiato il suo parere nei confronti del ex presidente del Venezuela. Per Iglesias, oggi Chávez non è più un Dio da imitare. Ma i resti del suo populismo, almeno per adesso, non si sono ancora estinti.
(7 – continua)