Di fronte alle violenze e agli assalti delle bande armate, l’ambasciata degli Stati Uniti ad Haiti ha deciso l’evacuazione di parte del suo personale. La fuga dei diplomatici americani, avvenuta nella notte del 10 marzo, è solo l’ultima novità emersa nel contesto della grave crisi che sta attraversando il piccolo Stato caraibico. Dall’irruzione nei penitenziari, con l’evasione di migliaia di detenuti, all’attacco coordinato agli edifici governativi, dai saccheggi negli ospedali all’occupazione di un importante aeroporto del Paese: da alcune settimane la situazione ad Haiti è ormai fuori controllo. E la capitale, Port au Prince, è controllata per l’80% dalle gang. Il tutto mentre il primo ministro Ariel Henry si trova a Puerto Rico, sotto la protezione degli Stati Uniti, e i gruppi criminali premono per le sue dimissioni, minacciando di scatenare una vera e propria guerra civile.
L’origine delle proteste
Spari, esplosioni, assalti agli edifici governativi, scontri armati fra la polizia e le bande criminali: dall’inizio di marzo il Paese sta vivendo una delle peggiori crisi degli ultimi anni. Crisi cominciata a febbraio, con le grosse proteste popolari contro il governo e un primo ministro e presidente ad interim visto come illegittimo detentore del potere. Henry avrebbe infatti dovuto indire elezioni popolari entro il 7 febbraio, in un Paese che non va votare ormai da sette anni. Il leader haitiano si è però rifiutato, sostenendo la necessità di ripristinare prima la stabilità nel Paese. Di qui appunto le proteste, cui aveva aderito anche la Brigata di sorveglianza delle zone protette. Il leader di questo corpo armato di guardiaparchi, l’ex senatore Guy Philippe, aveva esortato i membri della brigata a imbracciare le armi e a prendere il controllo delle regioni dove lavorano.
Dopo un mese di proteste, a inizio marzo si è innescata una vera e propria escalation di disordini e violenze. Durante una visita in Kenya, Henry ha infatti firmato un accordo per una missione di sicurezza Onu che prevede il dispiegamento di circa mille agenti di polizia per contrastare le bande armate. Tale accordo ha innescato la reazione delle gang, che hanno trasformato le strade e le città del Paese in una sorta di campo di battaglia.
Il Paese nel caos
Negli ultimi giorni le bande hanno preso d’assalto alcuni penitenziari, favorendo l’evasione di circa 4 mila detenuti tra cui numerosi leader della criminalità organizzata. Nella notte di sabato hanno lanciato attacchi coordinati e simultanei a edifici governativi e stazioni di polizia. Nella capitale Port au Prince hanno dato alle fiamme la sede del Ministero degli Interni e hanno tentato di prendere il controllo della Corte Suprema. Hanno occupato l’aeroporto di Toussaint Louverture, attaccato lo stadio, saccheggiato e distrutto gli ospedali, mentre il porto della capitale è stato chiuso a tempo indeterminato.
Nel complesso, si calcola che l’80% di Port au Prince sia ormai controllato dalle gang. Il cibo scarseggia, il sistema sanitario è sull’orlo del collasso, migliaia di persone sono fuggite dalle loro case. Di conseguenza, il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza nel dipartimento dell’Ouest, dove si trova la capitale, estendendolo poi fino al 3 aprile e prevedendo anche il coprifuoco notturno. Nel frattempo, il primo ministro e presidente ad interim Henry è rimasto a Puerto Rico, sotto la protezione degli Stati Uniti.
“Barbecue” e l’inedita alleanza di bande armate
Le violenze e gli assalti delle bande armate sono coordinati da un capo, l’ex ufficiale di polizia 46enne Jimmy Chérizier. Un tempo braccio armato del presidente Jovenel Moise, è conosciuto anche come “Barbecue”, soprannome che lui sostiene derivi dal ristorante di pollo fritto della madre. Altri ritengono invece che l’appellativo venga dalle sue attività criminali, ossia dalle sue responsabilità nella morte di alcune persone, massacrate e bruciate vive. La stessa Onu ritiene che abbia avuto un ruolo negli eventi del 2018, quando almeno 71 persone vennero uccise, oltre 400 case del quartiere della capitale La Saline vennero bruciate e svariate donne vennero stuprate.
Fatto sta che Chérizier nel 2020 annunciò in video di essere diventato il capo di un’inedita coalizione di nove potenti gang criminali della capitale, la cosiddetta “G9 an fanmi” (in italiano “G9 e famiglia”). Secondo il sito di giornalismo investigativo InSight Crime, l’ex ufficiale di polizia avrebbe creato l’alleanza con il beneplacito dell’allora presidente Jovenel Moise, che dal 2017 al 2021 avrebbe favorito una vera e propria “gangsterizzazione” del Paese. In altre parole, i politici locali avrebbero da allora usato le bande per controllare i territori e ostacolare il voto e le proteste dell’opposizione. In cambio, avrebbero fornito alle gang armi, munizioni, finanziamenti e mezzi di trasporto.
La gangsterizzazione di Haiti
Il 7 luglio 2021 Moise venne ucciso da un gruppo di persone che riuscì a entrare nella sua residenza. Le circostanze non sono ancora chiare, ma in seguito si è ipotizzato il coinvolgimento del primo ministro Henry, che dopo l’attentato assunse la vicepresidenza ad interim. Il politico haitiano accusò l’opposizione e la polizia di essere responsabili e promise di indire presto nuove elezioni. Le gang sfruttarono il momento per acquisire potere, prendendo il controllo di ulteriori territori e arrivando a gestire la distribuzione del cibo. Ad oggi decidono persino quali organizzazioni non governative possono entrare per fornire servizi alla popolazione. Nel settembre del 2022 gli uomini di Chérizier sequestrarono 25 mila tonnellate di gasolio, portando a una crisi energetica nel Paese. A ottobre l’Onu lo sanzionò per «atti che minacciano la pace, la sicurezza e la stabilità di Haiti» e «gravi violazioni dei diritti umani».
Da allora l’ex ufficiale di polizia scomparve dalla sfera pubblica, per poi ricomparire nelle ultime settimane. Presentandosi come capo popolare più che come boss criminale, Chérizier si è posto l’obiettivo di realizzare una «rivoluzione proletaria». L’obiettivo, cioè, di «liberare il Paese con le armi e con la gente», provocando la caduta del governo. «Se Ariel Henry non presenta le sue dimissioni, e se la comunità internazionale continua a sostenerlo», ha assicurato, «andremo dritti verso una guerra civile e un genocidio». Insomma, Chérizier vorrebbe – a parole – innescare un colpo di Stato mediante gli attacchi delle bande criminali da lui coordinate e il sostegno della popolazione. Il tutto con un riferimento politico fisso nella mente: François Duvalier, il dittatore che governò Haiti dal 1957 al 1971.
La risposta internazionale
L’impennata di omicidi e violenze ha provocato una prima timida risposta da parte degli Stati Uniti. Il segretario di Stato di Stato Antony Blinken ha manifestato a Henry e al presidente della Comunità dei Caraibi Irfaan Ali «l’urgente necessità di accelerare la transizione verso un governo più ampio e inclusivo». Una risposta è arrivata anche dal “vicino di casa”, la Repubblica Dominicana, ossia il Paese che si divide con Haiti l’isola caraibica di Hispaniola. In particolare, il presidente dominicano Luis Abinader ha dichiarato il primo ministro haitiano “persona non grata” nel suo Paese, per questioni di sicurezza nazionale. Ha inoltre confermato la chiusura del confine terrestre di 390 chilometri e le restrizioni alla circolazione delle merci.
Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno evacuato dalla loro ambasciata ad Haiti il personale non essenziale. Il trasferimento è stato condotto nella notte del 10 marzo, attraverso diversi viaggi in elicottero. L’idea è comunque quella di consentire «la continuazione delle operazioni dell’ambasciata», ha spiegato il Comando Sud degli Stati Uniti. L’edificio rimane dunque aperto e viene sottoposto a sicurezza rafforzata, protetto da un contingente di marines. Il tutto mentre alcune indiscrezioni riferiscono che il Dipartimento di Stato americano avrebbe disposto il dispiegamento sull’isola di una squadra di sicurezza antiterrorismo. Pure il Kenya avrebbe messo a disposizione un gruppo di 400 agenti di polizia d’élite per aiutare le forze dell’ordine haitiane a fronteggiare la criminalità dilagante. E a breve dovrebbe essere dispiegata la Missione multinazionale di sostegno alla sicurezza (Mmas), approvata dall’Onu nel mese di ottobre.
Sull’orlo del collasso
«Haiti è sull’orlo del collasso totale», è il monito proveniente dall’organizzazione Human Rights Watch. Per questo «è urgente che i partner regionali e internazionali sostengano le richieste degli haitiani per una risposta internazionale basata sui diritti che affronti tutti gli aspetti della crisi». Gli aspetti cioè umanitari, economici e sociali, che vanno ben oltre quello prettamente securitario. Lo scorso anno, quindi prima dell’ultima escalation di disordini, le vittime delle gang erano oltre 8400 e gli sfollati avevano raggiunto quota 200 mila. Molti di loro cercano di entrare negli Stati Uniti passando, senza permesso, attraverso il confine con il Messico. Per di più, l’Onu ritiene che circa la metà degli 11.4 milioni di abitanti non abbiano cibo a sufficienza. Dati che fanno, di Haiti, uno dei Paesi più poveri del mondo. Una povertà che, in questo clima di violenze e disordini, non potrà far altro che peggiorare.