Congo, il lato oscuro della decarbonizzazione

Le miniere di cobalto in Congo

Il paese africano più ricco di risorse ma anche uno dei più instabili. Fondamentale protagonista per il processo mondiale di decarbonizzazione, la Repubblica Democratico del Congo (RDC) è teatro di una crisi umanitaria che si protrae da decenni, inaspritasi negli ultimi mesi.

Le ripercussioni della decarbonizzazione

Il Congo è nel mirino delle multinazionali mondiali in cerca di risorse per sostenere il processo di decarbonizzazione e costruire le batterie al litio sia di veicoli elettrici che di cellulari. Nel caso di un’automobile sono necessari più di 13 chili di cobalto, per un telefono circa 7 grammi. Amnesty International stima che la domanda di cobalto, già triplicata dal 2010, raggiungerà le 222.000 tonnellate entro il 2025.

Il territorio congolese ospita la più grande riserva al mondo di cobalto e la settima di rame. Le miniere sono in continua espansione e inghiottono villaggi interi. L’UNHCR stima che solo nelle ultime sei settimane sono state costrette all’espatrio più di 450.000 persone, tra villaggi bruciati, violenze e soprusi.

A rendere la situazione ancora più instabile sono gli scontri in corso da decenni tra le forze governative e i gruppi armati. Anche questi collettivi, spesso provenienti da Ruanda e Uganda, tentano di prendere il controllo delle risorse.

L’eredità coloniale

Lo sfruttamento senza controllo di territorio e minerali non ha di certo origine adesso. Nel 1885 la conferenza di Berlino regolò il commercio europeo nell’Africa centro occidentale, creando lo Stato Libero del Congo. Questa nuova nazione venne consegnata al re del Belgio, Leopoldo II, che fece razzia di risorse.

Nel 2020, in occasione dei 60 anni dell’indipendenza della RDC, il re Filippo si è scusato per la brutalità del regime coloniale belga esprimendo «il più profondo dispiacere per le ferite del passato».

I gruppi armati

Le violenze sono più diffuse ed efferate nella parte est della Repubblica, soprattutto nelle regioni del Nord e Sud Kivu, le più ricche di risorse. In 25 anni di conflitti per il predominio del territorio – secondo un rapporto delle Nazioni Unite – si sono scontrati più di 100 gruppi armati.

Tra le forze ribelli più sanguinari c’è l’ADF (Allied democratic forces) considerata un’organizzazione terroristica dall’Uganda. Poi il CODECO, un collettivo appartenente al gruppo etnico Lendu che opera dal 2013. Infine M23, la milizia più attiva al momento. Quest’ultimo vorrebbe il ritorno sicuro dei rifugiati tutsi congolesi dal Ruanda. Da solo avrebbe messo in fuga più di mezzo milione di persone.

La Monusco

Si è conclusa in questi giorni la missione dell’ONU, denominata Monusco, presente da 25 anni con 15000 soldati. L’interruzione della collaborazione è stata chiesta dal presidente congolese, Félix Tshisekedi, in occasione dell’assemblea generale dell’ONU a New York, lo scorso 20 settembre.

I caschi blu dell'Onu in Congo
I caschi blu in azione nella missione Monusco

La motivazione fornita da Kinshasa per giustificare il divorzio sarebbe stata l’incapacità dei caschi blu di affrontare i gruppi armati e riportare stabilità. La pace nella Repubblica è lontana, però l’improvvisa fretta di Tshisekedi sembra legata alle elezioni del prossimo 20 dicembre. I cittadini congolesi si sono spesso dimostrati ostili alla presenza delle Nazioni Unite.

La denuncia delle organizzazioni umanitarie

La segretaria generale di Amnesty Agnès Callamar ha sottolineato che: «Le attuali espulsioni forzate, causate dallintento delle aziende di ampliare i propri progetti minerari su vasta scala, stanno devastando vite umane e devono essere immediatamente fermate».

L’organizzazione chiede che la transizione ecologica sia equa in termini di giustizia climatica. L’UNHCR si concentra nello specifico sulle violazioni di diritti umani. A ottobre 2023 ce ne sarebbero state 3000, raddoppiate rispetto al mese precedente.

Anche i cittadini congolesi stanno cercando di farsi sentire. L’8 novembre scorso è andato virale sui social il video di un uomo che si dà fuoco chiedendo di fermare il genocidio nel suo Paese.

 

A cura di Rebecca Saibene

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