Sono sempre più numerosi gli studi che in questi mesi si stanno adoperando nel trovare una correlazione tra la diffusione del Covid-19 e i valori elevati dell’inquinamento presenti sul territorio. Alcuni di questi sono ancora fermi ad un’indicazione puramente teorica, mentre altri hanno già superato la fase peer-review, attraverso la valutazione di specialisti del settore che ne verificano l’idoneità alla pubblicazione scientifica. Questo è il caso dello studio tedesco “Assessing nitrogen dioxide (NO2) levels as a contributing factor to coronavirus COVID-19) fatality” di Yaron Ogen del Geowissenschaften und Geographie della Martin-Luter-Universitaet Halle-Wittenberg.
Lo studio preso in esame, e già pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment, vuole trovare un’associazione tra l’elevata presenza di biossido di azoto (NO2) e il numero di decessi per COVID-19. Secondo quanto viene sottolineato da Ogen, la possibile relazione tra i due fenomeni riguarda più che altro i problemi che l’inquinante atmosferico causa sui cittadini. Un’elevata assimilazione di biossido di azoto può infatti danneggiare il tratto respiratorio umano, rendendo i cittadini più soggetti a malattie respiratorie e cardiovascolari. A valorizzare la tesi dello studioso tedesco, i dati satellitari sull’inquinamento atmosferico e le correnti d’aria tra gli stati europei di Italia, Francia, Spagna e Germania, che evidenziano un’alta concentrazione di NO2 in zone come Madrid e il Nord Italia. Milano, per esempio, ha una media giornaliera di biossido di azoto di circa 49 µg/m³ (dati aggiornati al 20 aprile), contro una media giornaliera del comune di Roma di circa 16 µg/m³ (dati aggiornati al 21 aprile). Dallo studio risulterebbe infatti che il 78% dei decessi per coronavirus si sia verificato in sole 5 regioni tra i quattro stati presi in esame, città che corrispondono anche alle aree più inquinate.
Livelli di NO2 nell’aria (valori in µg/m³)
La relazione tra inquinamento e diffusione del coronavirus non è però circoscrivibile solo agli elevati livelli di NO2 nell’aria. I docenti dell’Università di Harvard, Francesca Dominici, e dell’Università di Bari, Gianluigi De Gennaro, hanno sottolineato una correlazione con quelle province che hanno superato i limiti di legge per il PM10/PM2.5. I due studiosi hanno avuto modo di parlare della ricerca durante il seminario online “Inquinamento dell’aria e Covid-19”. Da quanto è stato evidenziato, le regioni della Pianura Padana che sono state maggiormente colpite dal coronavirus vivono in un particolare contesto che le porta a superare le soglie di PM10, nonché sono soggette ad uno scarso “ricambio di aria” e a livelli di umidità molto alti. Secondo quanto evidenziato dalla stessa Dominici, dopo la raccolta di dati relativi a circa 3mila contee degli Stati Uniti, pare che all’aumentare di 1 µg/m³ di PM2.5 aumenti del 15% anche il tasso di mortalità da Covid-19. Sempre in un confronto tra Milano e Roma, i valori di PM10 risultano entrambi circa 18 µg/m³. Addirittura, a febbraio in Lombardia era già stato superato il limite di 50 µg/m³ concessi dalle norme europee per il PM10.
Livelli di PM10 (valori in µg/m³)
L’INQUINAMENTO: UN PROBLEMA PER LA SALUTE ANCHE PRE-COVID
Ma perché l’aria ha un ruolo fondamentale in questo processo? Secondo quanto sottolineato da Ogen nella ricerca, «se l’aria è in movimento, anche gli inquinanti vicino al suolo sono più diffusi. Tuttavia, se l’aria tende a rimanere vicino al suolo, questo si applica anche agli inquinanti presenti nell’aria, che è quindi più probabile che vengano inalati dagli esseri umani in quantità maggiori e quindi portino problemi di salute». È sicuramente da evidenziare un dettaglio rilevante nella ricerca presentata dall’Istituto tedesco. Infatti, l’elevata esposizione all’inquinamento ha avuto un ruolo fondamentale sulla salute dei cittadini prima ancora dell’arrivo del coronavirus, rendendoli più deboli e soggetti quindi alla diffusione della malattia.
Mychal Johnson, co-fondatore del gruppo di avvocati South Bronx Unite, nel quartiere newyorkese – la città più colpita degli Stati Uniti – ha evidenziato a Vox, come i bambini residenti nel Bronx fossero costretti più volte a saltare scuola per correre in ospedale a causa di gravi problemi respiratori. I dati infatti, evidenziano come nel quartiere vi siano 21 casi in più di asmatici rispetto a tutti gli altri quartieri di New York. Effetti che peggiorano con l’avanzare dell’età, rendendo i cittadini più deboli di fronte a nuovi virus come quello che vi è ora in circolazione.
All’interno della ricerca del tedesco Ogen però, come evidenziato dal quotidiano greenreport.it i dati non vengono adattati alle differenze nella distribuzione dell’età nelle diverse aree, rendendo così il dibattito sulla relazione tra inquinamento e diffusione del virus ancora più ampio, e tirando in causa una serie di fattori che potrebbero avvalorare la tesi, così come vanificarla.
A rendere i dati viziati infatti, è anche l’elevata incertezza legata all’attendibilità, alla precisione e alla completezza dei conteggi dei decessi e dei contagi, nonché alle modalità di esecuzione dei tamponi. Tale limite, come riporta sempre greenreport.it, si riscontra in merito allo studio degli italiani Daniele Contini e Francesca Contabile – dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazione delle ricerche (Cnr-Isac) – dal titolo “Does Air Pollution Influence COVID-10 Outbreakes?”, pubblicato su Atmosphere. I due ricercatori sottolineano in questo caso due aspetti sulla correlazione inquinamento e pandemia: la prima domanda riguarderebbe infatti l’influenza dell’esposizione all’inquinamento precedentemente l’arrivo del virus, mentre la seconda sottolineerebbe il meccanismo di trasporto per diffusione in aria senza contatto.
La risposta arriva da Fabrizio Bianchi, responsabile dell’unità di epidemiologia ambientale del Cnr di Pisa e membro della Rete italiana ambiente e salute, in un’intervista sul magazine dell’università di Padova ILBOlive. L’epidemiologo ha voluto evidenziare l’importanza di approcciarsi al virus tenendo sempre conto della sua natura virale, i cui primi determinanti riguardano i contatti tra le persone. Se nell’approcciarsi alle ricerche si tiene conto anche di questo elemento, come sottolinea Bianchi, apparirà chiaro uno dei motivi per cui la diffusione del virus risulti più elevata in città come Wuhan, New York o Milano. «Se provassimo ad applicare il risultato dello studio di Harvard otterremmo dei numeri davvero enormi e l’inquinamento diventerebbe il principale determinante della letalità. – Commenta Fabrizio Bianchi. – Noi invece continuiamo a pensare che in una malattia virale, quindi trasmissibile, il principale determinante sia proprio la trasmissione e tutte le condizioni che la favoriscono».
IL FUTURO DELL’AMBIENTE
Il problema climatico resta al primo posto nella lista stilata dall’Onu in merito all’imminente futuro. Tra le discussioni in corso vi è anche quella del rinvio della conferenza Cop26 prevista per novembre 2020 a Glasgow e rimandata necessariamente all’anno prossimo. L’incontro, tra le altre cose, si sarebbe dovuto tenere alla SEC arena della città, trasformata a causa dell’emergenza in un ospedale per le vittime di coronavirus. Insieme al Cop26 è stato rimandato anche il meeting preliminare in programma a Bonn, in Germania.
Eppure, nonostante la grave crisi in cui i paesi si trovano in questo momento, non tutti gli esperti sono concordi sulle possibilità che può offrire la conferenza nel 2021. Se mentre infatti una parte di questi ritiene il rinvio come un modo per aiutare i Paesi a rientrare negli accordi fissati nella conferenza di Parigi del 2015, altri temono esattamente il contrario. «Anche se il summit può essere ritardato, – ha dichiarato il direttore esecutivo di Greenpeace UK, John Sauven, al The Guardian – l’emergenza climatica non può attendere».
NUOVI PROGRAMMI IN ATTO PER IL FUTURO
Le domande che dunque rimangono aperte in queste settimane riguardano il futuro dell’ambiente, ad oggi stravolto a causa della pandemia. Le misure restrittive hanno infatti costretto i cittadini a stare chiusi in casa, limitando la circolazione e liberando le tratte normalmente frequentate. Le emissioni di gas serra sono infatti riconducibili in modo particolare alle attività produttive e ai trasporti, ridotti ormai al limite consentito dagli ultimi decreti.
Un esempio tra tutti è la Laguna di Venezia. Dalle foto che emergono infatti dall’agenzia spaziale europea ESA Copernicus si può vedere chiaramente il Canale Grande e il Canale della Giudecca praticamente vuoti se confrontanti con le immagini dello scorso anno. Senza contare che il traffico che normalmente collega Venezia con l’isola di Murano appare quasi inesistente. Il traffico marittimo è sceso quasi a zero dall’inizio del lockdown, portando beneficio alla Laguna intera. Secondo le immagini che girano nell’ultimo periodo sui social infatti, l’acqua dei canali di Venezia sembra essersi ripulita permettendo anche ai pesci di tornare a nuotare.
Ma non è l’unico esempio. L’Italia in questo periodo di chiusura e silenzio sembra essere pian piano rinata nella sua bellezza ambientale. Sui Navigli di Milano sono tornati i cigni mentre a Trieste i delfini si avvicinano ai porti, privi del traffico navale. Quello che dunque resta da capire e da definire, sono dei piani strategici per il futuro per non rischiare di perdere quanto guadagnato fino ad ora dal punto di vista ambientale.
EFFETTI DELL’ECONOMIA SULL’INQUINAMENTO
Non è tutto però. La crisi economica che potrebbe scaturire a causa del lockdown attualmente in vigore, potrebbe avere effetti anche sui valori dell’inquinamento atmosferico. Secondo quanto evidenziato da un articolo dell’Internazionale di Gabriele Crescente, non sarebbe la prima volta infatti, che una crisi economica porta con sé anche il declino delle emissioni. Basti guardare la prima crisi petrolifera degli anni ’70, o la dissoluzione dell’Unione Sovietica del 1991 o ancora la crisi finanziaria del 2008. Tutte situazioni che hanno portato con loro una piccola riduzione dei valori di anidride carbonica presente nell’aria, se non gli unici momenti nella storia mondiale in cui questo è accaduto, come evidenzia Crescente. Al tempo stesso però, se si guarda al lungo periodo, una volta avvenuta la ripresa economica, le emissioni sono tornate al loro livello di partenza, se non addirittura più elevate. «Nel 2009 la crisi finanziaria ha provocato una riduzione del Pil globale dello 0,1 per cento e un calo delle emissioni di anidride carbonica dell’1,2 per cento. Anche in quel caso molti parlarono di una possibile svolta nella crisi climatica. Ma nel 2010 le misure di stimolo economico provocarono un aumento del 5,1 per cento nelle emissioni, molto più rapido che negli anni precedenti la crisi». Scrive il giornalista dell’Internazionale.
A fronte di questi dati è dunque necessario trovare una strategia tale da poter beneficiare dei nuovi dati ambientali per poterli mantenere anche successivamente.
CHE IMPATTO AVRÀ IL CORONAVIRUS SUL GREEN DEAL?
Proprio il 24 aprile il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha parlato del problema della mobilità nella Fase 2. È previsto che molti dipendenti e liberi professionisti tornino al lavoro, ma l’uso dei mezzi pubblici è stato definito “difficoltoso”, proprio per gli assembramenti che potrebbero provocare. Per questo ha parlato di favorire l’aumento di mezzi autonomi, cosa che rischia di trasformare una città come Milano, che stava cercando di convertirsi alla sostenibilità, in un posto ancora più inquinato. Una visione che preoccupa ma che, sentendo le parole del sindaco intervistato a Piazza Pulita, può essere un’ulteriore occasione per far cambiare traiettoria alla città. L’obiettivo è di virare verso mezzi più green, puntando su scooter e biciclette elettriche, accelerando per la loro introduzione. Ma il problema non è solo Milano, va infatti proiettato su scala globale.
Ricalibrare le politiche ambientali a causa della destabilizzazione che il coronavirus ha portato è un tema più che vivo. Ce la farà la politica green a resistere a questo momento?
«Il Green Deal è stato approvato mesi fa e al suo interno prevede tantissime iniziative, tra cui il piano d’azione per l’economia circolare che è arrivato l’11 marzo. Un evento importantissimo per la politica ambientale, anche se, purtroppo, tutto questo è arrivato proprio durante l’emergenza coronavirus. Anche per questo tutta la questione ecologica è rimasta sotto traccia», a parlare è Elisa Meloni, responsabile per le politiche di economia circolare di Volt Italia. Il partito ha fatto della sostenibilità e dell’impegno ecologico la sua ragion d’essere ed è ora presente in 33 Paesi europei, fuori e dentro l’Unione Europea.
Chi è contrario
«Sul tema Green Deal ci sono due fazioni contrapposte, i favorevoli e i contrari. Questi ultimi sono prevalentemente tra i nazionalisti e i sovranisti», continua Elisa Meloni. A livello europeo una delle prime voci che si sono alzate sono state quelle del primo ministro ceco, Andrej Babiš. Babis ha infatti suggerito di dirottare mille miliardi di euro proprio dal Green Deal, per salvare le economie schiacciate dal coronavirus. Tale somma però dovrebbe servire a tagliare del 50-55% le emissioni entro il 2030.
A dare eco alla sua voce sono arrivati altri Paesi del Gruppo di Visegrád, da sempre ostili a questa linea. «Ma i politici nostrani non si sono fatti attendere», ricorda la responsabile di Volt, «Salvini ha parlato di mega condono che coinvolge anche le questioni ambientali. Sono in molti a dire che ci sono altre priorità, ma se si vuole sospendere il green deal, come ha proposto la mia omonima Giorgia Meloni, si mette a rischio la salute dei cittadini».
Chi è favorevole
Il Green Deal però c’è ancora ed è ben difeso. Il presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen e Primo vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans – con delega proprio per il Green Deal – hanno dichiarato che la ripresa va orientata verso un’Europa resiliente, digitale e verde.
Sono queste le priorità della Commissione Von der Leyen sin da quando si è insediata e anche in questo momento di difficoltà economica e sanitaria non ha messo in discussione gli obiettivi ecologici. Al contrario, gli sforzi dovranno essere raddoppiati, dice il presidente della Commissione europea, e saranno necessari investimenti mirati, favorendo l’energia rinnovabile e l’economia circolare. Un impegno portato avanti anche dall’Italia dato che il ministro dell’ambiente Sergio Costa è stato tra i primi ministri dell’ambiente europei a firmare una lettera in cui si chiede di smettere di foraggiare un modello di economia obsoleto.
Ma dal punto di vista economico, il Green Deal è un impedimento, come dicono i sovranisti? Elisa Meloni dice di no, «Perché per ogni posto di lavoro impegnato nei combustibili fossili se ne possono creare da 3 a 5 nella green economy. Quindi la Commissione europea vede come un’opportunità questa economia verde cosa che dovremmo fare anche noi».
COSA VUOL DIRE ESSERE GREEN
L’Europa continua a credere nella sostenibilità, a dimostrarlo ci sono molti progetti attivi e in fasi di completamento che la stessa Unione Europea sta finanziando. Credendo nell’economia circolare è interessata a programmi come RESYNTEX, che opera nelle industrie tessili e chimiche, recuperando materie prime secondarie da rifiuti tessili non indossabili. L’organismo ha poi investito 57 milioni di euro per finanziare un progetto che introduce 62 autobus nei sistemi di trasporto urbano tedesco e inglese. I mezzi sono alimentati a idrogeno e potrebbero diventare il trasporto pubblico a emissioni zero.
Ma i piani dell’Unione europea sono accompagnati anche ad altre politiche più locali e specifiche per la zona per cui sono pensate. «Volt, ad esempio, in Emilia-Romagna si occupa di inquinamento proprio a causa delle condizioni del territorio, invece in Toscana siamo più incentrati sul correggere la mala gestione dei rifiuti».
Il grande obiettivo della politica verde in Europa rimane dunque quello di lasciarsi alle spalle le emissioni nette di gas a effetto serra prima del 2050. Il rischio è che con l’emergenza pandemia in corso, di cui si sa la data di inizio ma non quella di fine, le politiche slitterà e, come ci ricorda Elisa Meloni, è rischioso, visto che «siamo già abbondantemente fuori dalla tabella di marcia per gli obiettivi intermedi dell’accordo di Parigi». Uno slittamento pericoloso visto che, appunto, l’inquinamento e la salute vanno di pari passo.
L’Europa promette di tenere il focus sul Green Deal, così come l’Italia. Ce la faranno? «A livello europeo è più semplice – conclude Elisa Meloni – la legislazione dura 5 anni, non è mai successo che si sia interrotta. In Italia invece è tutto più instabile, non si sa quanto questo governo rimarrà in carica. Tutto sta a se governi di colori diversi saranno interessati a portare avanti questa traiettoria».